Scatta oggi l’embargo totale al carbone russo annunciato lo scorso aprile, esattamente ventiquattro ore dopo l’entrata in vigore del piano d’emergenza sul gas varato da Bruxelles. È l’ultimo tassello del razionamento energetico imposto dal taglio delle forniture di Mosca: in questo caso oltre 40 milioni di tonnellate di carbone non arriveranno più alle centrali degli Stati Ue, comprese quelle che la Germania vorrebbe riaccendere a partire dal prossimo ottobre.

Si aggiunge alla stretta sul petrolio confermata sempre ieri da Transneft, gestore dell’oleodotto “Druzhba”, tecnicamente impegnato al blocco politico della parte meridionale del condotto: da sei giorni il greggio che alimenta l’Europa non passa più attraverso il territorio ucraino ma fa il giro per Bielorussia, Polonia e Germania tagliando fuori Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, proprio i tre Paesi che avevano chiesto alla Commissione Ue di escludere il petrolio russo dal pacchetto delle sanzioni. Motivo dichiarato della ritorsione da parte del Cremlino: Transneft non è stata in grado di pagare le tariffe di transito a causa delle sanzioni bancarie occidentali.

Sanzioni obbligatorie dall’inizio dell’invasione russa, al contrario della riduzione, che invece è volontaria, del consumo di gas predisposta dall’Unione europea. Da ieri negli Stati membri è iniziato il risparmio volontario del 15% rispetto al volume annuo bruciato negli ultimi cinque inverni: per l’Italia significa il 7% circa in meno (dice Cingolani), per la Germania invece sono 10 miliardi di metri cubi da risparmiare da qui alla fine dell’inverno che deve ancora cominciare.

Il primo a spegnersi per effetto diretto del piano immaginato da Ursula von der Leyen è lo storico duomo di Colonia da 24 ore ora senza la consueta illuminazione. Servirà davvero o è solo un modo per dare l’esempio come ha fatto la città di Berlino? A riguardo, dall’esempio del carbone, l’Europa non ne esce molto pulita. La settimana scorsa, alla vigilia dall’embargo vigente da oggi, molti Stati Ue hanno “sollecitato” il Sudafrica a garantire le forniture che dovranno supplire allo stop russo. Dall’inizio della guerra in Ucraina l’Europa ha importato ben 3.2 milioni di tonnellate di carbone africano, quasi la metà in più rispetto all’anno scorso.

Sottraendolo, in buona sostanza, ai Paesi africani, il cui fabbisogno interno è limitato dalle elevate tariffe sulla CO2 fissate per motivi ambientali. Sotto il profilo ecologico è ineccepibile, ma rivela il double-standard morale di Bruxelles che dopo lo stop al carbone russo cerca di accaparrarsi in via prioritaria il combustibile fossile più sporco.

Assai più economico del “nuovo” gas algerino e azero che dovrà compensare entro il 2024 il deficit di Gazprom, senza contare i rigassificatori previsti in mezza Europa. In attesa dei quali da ieri è entrato a regime il piano Ue di riduzione dei consumi fino al prossimo marzo. Mal digerito da parte dell’Europa (Polonia e Ungheria si erano fermamente opposte), per il momento funziona a macchia di leopardo con Parigi che impone porte sbarrate se i condizionatori sono accesi, Madrid fissa la temperatura minima negli edifici a 27 gradi e la Germania che spegne monumenti e sedi istituzionali.

Ma energia vuol dire sempre più ritorno al nucleare, dopo la sintomatica apertura del cancelliere Scholz sul rinvio dell’exit tedesca. All’attenzione dei propagandisti dell’atomo, l’inquietante sostituzione delle pillole di iodio in corso in questi giorni in Slovacchia. Procedura standard prevista ogni cinque anni negli asili, scuole elementari, università, case di riposo e istituti penitenziari; ricorda perfettamente il clima di insicurezza permanente delle centrali nucleari.