Una Natura resa matrigna dai suoi abitanti umani. I quali debbono e possono invertire la rotta. La mostra fotografica «Vento, caldo, pioggia, tempesta. Istantanee di vita e ambiente nell’era dei cambiamenti climatici», allestita da Greenpeace (con la collaborazione del Cnr) presso il museo di Roma in Trastevere dal 12 dicembre 2018 al 10 marzo 2019, rende in 50 immagini da tutto il mondo (e dall’Italia) un caos di eventi estremi che non risparmia nessuno, anche se amaramente penalizza i meno responsabili.

Gli sforzi vanno decuplicati, dopo l’ultima conferenza Onu sul clima (Cop 24, svoltasi in dicembre a Katowice, Polonia), conclusasi con un accordo modesto e al ribasso: nessun chiaro impegno collettivo a migliorare gli obiettivi di azione sul clima, i cosiddetti Nationally Determined Contributions (Ndc). Ci si muove con troppa lentezza. Il «libro delle regole» adottato per contenere l’aumento delle temperature è meno ambizioso di quanto sarebbe necessario, dopo un anno di disastri climatici e il monito dei migliori climatologi («Rimangono solo 12 anni di tempo per salvare il clima», hanno detto nel mese di ottobre gli scienziati dell’Ipcc – Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico), ma almeno indica una tabella di marcia vincolante.

Le 50 opere di fotografi che collaborano con le sedi di Greenpeace in giro per il mondo rendono l’emergenza. Pericolo, fatica di vivere, desolazione. Troppa acqua o troppo poca. Fiamme, polvere, cenere, distruzione: le immagini sembrano di guerra. E in effetti guerra al pianeta è stata dichiarata da tempo.

Sembra un déjà vu saheliano la donna carica di sterpaglie che attraversa un campo riarso. Invece siamo a Khomnal, nello Stato indiano del Maharashtra, dove c’era un lago, piccolo ma solitamente pieno d’acqua tutto l’anno. Nel marzo 2016 per la prima volta si è mostrato così, non una goccia, onde di zolle polverose e grigie. Polvere anche nella mano di un contadino, in Cina, che sembra chiedere al cielo pioggia per il suo grano, eppure la regione era stata rigogliosa. Analoghe le foto rurali nell’Italia del Sud. Ma nella stessa Amazzonia, foresta pluviale per antonomasia, a causa della siccità banchi di sabbia emergono lungo tutto il Rio delle Amazzoni, sempre meno riconoscibile.

Anche i ricchi a volte piangono. Colpiti ad esempio, in California, dal doloso incendio Holy che nell’agosto 2018 ha bruciato oltre 21.000 ettari di foresta insieme a un numero incalcolabile di animali selvatici e alberi. E quanti grossi Suv sulla superstrada 610 in Texas, allagata dall’uragano Harley. Un suo collega, Sandy, ha sommerso le case sulla costa del New Jersey: sembra il vecchio Vajont; o l’attuale Bangladesh, una nazione che sta affondando per davvero, alla pari delle isole del Pacifico. Dove andrà una parte almeno dei suoi 165 milioni di abitanti? Il Bangladesh è solo un esempio: il documentario Human Flow (2017) del regista cinese Ai Weiwei si è occupato – seguendo una catena di vicissitudini – del più grande esodo umano dai tempi della seconda guerra mondiale: oltre 65 milioni di persone costrette negli ultimi anni a lasciare le proprie case per sfuggire a carestie, cambiamenti climatici e guerre.

La consapevolezza dell’urgenza è certo aumentata (anche se, ad esempio, si continua a produrre plastica monouso che poi va randagia per i mari. In una foto della mostra, un lungomare di bottigliette di Pet spiaggiate come i bei legni di un tempo). Ispirato dagli otto milioni di persone che su tutto il pianeta chiedono la protezione dell’Artico, il compositore e pianista Ludovico Einaudi ha composto Elegy for the Arctic e l’ha eseguita su una piattaforma galleggiante di fronte al ghiacciaio Wahlenbergbreen, in ritiro per il riscaldamento globale. Come i nostri ghiacciai alpini, che alcune foto della mostra ritraggono in un «prima e dopo» piuttosto agghiacciante.

Ad ascoltarle il musicista almeno idealmente anche due trichechi fotografati sul residuo pack di fronte all’isola di Kvitøya (Isola Bianca), nell’arcipelago delle Svalbard. Non è sotto l’occhio dei riflettori come l’orso polare, ma la Lista rossa dell’Iucn-Unione internazionale per la conservazione della natura classifica l’Odobenus rosmarus (nome scientifico del tricheco) come specie vulnerabile e sotto stress a causa del riscaldamento delle temperature globali e della conseguente diminuzione del ghiaccio marino – oltre a trovarsi in aree particolarmente ambite dalle compagnie petrolifere.

Quali soluzioni? Si farà in tempo prima che cada del tutto la spada di Damocle? Come conferma la campagna Clima di Greenpeace, secondo la scienza occorre «abbandonare carbone, petrolio e gas e accelerare la transizione energetica verso un mondo totalmente rinnovabile, oltre che diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione».

Alla Cop 24 in Polonia, la quindicenne svedese Greta, diventata famosa per vari giorni di sciopero pro-clima davanti al Parlamento del suo paese, ha esortato i delegati a «lasciare i combustibili fossili sottoterra» e a «focalizzarsi sull’equità». L’altro nome della sopravvivenza di tutti.