Il giorno dopo le condanne in primo grado di cinque dei sei carabinieri di Piacenza accusati di spaccio e tortura per la vicenda della caserma Levante (il sesto ha scelto il rito ordinario), il sottosegretario al Ministero dell’Interno della Lega Nicola Molteni arriva in città. «Chi sbaglia paga», dice Molteni. Poi però aggiunge dell’altro: «Detto ciò esprimo vicinanza e solidarietà all’Arma perché è un corpo sano. Dobbiamo tutelare anche l’incolumità delle forze dell’ordine per questo credo che a breve sarà consentito l’utilizzo del taser». Viene da chiedersi che cosa avrebbero potuto fare quei carabinieri col taser in mano. L’intera caserma, e un fatto del genere non era mai successo in Italia, fu messa sotto sequestro nell’estate 2020 dopo di indagini e pedinamenti che hanno raccontato di militari che si credevano boss di quartiere.
È passato un anno, la caserma è ormai tornata operativa, e il sottosegretario Molteni a una manciata di ore dalle condanne sceglie di annunciare i taser per tutti. «Benissimo dire che ‘chi sbaglia paga’ – commenta il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – Però a quelle tre parole il sottosegretario ne ha aggiunte altre 200, compreso l’annuncio dei taser, cosa che ci preoccupa molto». «Le condanne di Piacenza – conclude Noury – sono un segnale importante perché riconoscono che è successo qualcosa di molto grave».
A prendere posizione in maniera netta di fronte alla sentenza di primo grado è l’Arma dei Carabinieri. «Con responsabilità accertata, non ci saranno sconti per nessuno – si legge in una nota – Chi sbaglia pagherà oltre che sul piano penale anche su quello civile (anche con risarcimento dei danni economici) e disciplinare». L’Arma si è costituita parte civile e annuncia la creazione di «una struttura con compiti di audit, per rafforzare la costante attività di verifica sul funzionamento dei reparti sino a livello di stazione e adottate iniziative per la formazione del personale».
A chiedere trasparenza e controllo è anche la Cgil. La ricetta del sindacato è però diversa da quella dell’Arma, perché la Cgil chiede di separare «le funzioni del controllore da quelle del controllato». Come si fa? «Con interventi profondi capaci di conquistare trasparenza e vivere democratico e di rendere pienamente esigibile, con i limiti che la Costituzione indica, l’agire sindacale», scrive il responsabile nazionale Legalità e Sicurezza della Cgil, Luciano Silvestri, che nel ragionamento mette in fila proprio le condanne di Piacenza, il raid punitivo degli agenti carcerari di Santa Maria Capua Vetere, e anche la morte di Stefano Cucchi. «Se ci fosse stato un esercizio sindacale minimamente democratico queste cose non sarebbero accadute», spiega Silvestri, che racconta di un processo di sindacalizzazione nell’Arma ancora agli albori, iniziato dopo una sentenza della Corte costituzionale del 2018 e per ora solo sulla carta, tant’è che le varie sigle non hanno rappresentanza sui territori e non vengono nemmeno convocate. Un sindacato che funziona, è invece il ragionamento, può garantire standard di controllo e trasparenza sul posto di lavoro, anche in una caserma dei carabinieri dove la gerarchia è ferrea e gli ordini non si discutono. Al momento però «resta ancora tutto da fare”, in attesa di una riforma parlamentare complessiva della materia “che però speriamo non peggiori la situazione visti i testi in discussione tra Camera e Senato».
Soddisfatti dalle condanne di primo grado i neonati sindacati di categoria, che nel processo appena concluso hanno trovato – attraverso un tribunale e la sua sentenza – uno dei loro primissimi riconoscimenti essendo stati accettati come parti civili. «Viene confermato il ruolo del sindacato quale presidio dei valori democratici ed il suo compito a tutela della legalità e soprattutto del rispetto dei diritti e della dignità dei lavoratori, anche nel contesto del lavoro militare», dice Corrado Bortoli, segretario generale del Silca, il sindacato lavoratori carabinieri.