Della scrittrice triestina Pia Rimini, nata nel 1900 e morta ad Auschwitz nel 1944, non abbiamo a disposizione informazioni di facile reperimento. Ciò non significa che non ne esistano, seppellite da anni di dimenticanza; quando però la traiettoria è questa, cioè che le biografie e le opere di alcune scrittrici italiane si depositino in strade più tortuose, la passione per la loro riemersione editoriale diventa radura ancora più luccicante.

ORA CHE READERFORBLIND ha deciso di pubblicare i racconti di Rimini che dal 1929 arrivano in libreria con il titolo L’amore muto (pp. 214, euro 16), corredati dalla prefazione preziosa di Giulia Caminito, della modernità di quella scrittura pensante abbiamo un esempio tangibile e immediato.
Prima di questa audace edizione, dobbiamo alla dedizione di Gabriella Musetti la curatela di Oltre le parole. Scrittrici triestine del primo Novecento (2015) che colloca Pia Rimini (di cui si occupa Maria Neglia) in una mappa di prossimità insieme ad altri nomi: Ida Finzi, Fortuna Morpurgo, Anna Curiel Fano, Alma Morpurgo. Ancora prima vi era stato il volume Bianco, rosa e verde: scrittrici a Trieste fra ’800 e ’900, a cura di Roberto Curci e Gabriella Ziani (1993) e appena quattro anni fa la ristampa di un romanzo del 1930 di Rimini dal titolo Il giunco.

I diciotto racconti che compongono adesso L’amore muto conducono al cuore di una potente espressività in cui le protagoniste hanno a che vedere con i sentimenti umani e in particolare con l’amore nella forma relazionale tra donne e uomini. Ci consegnano il peso di un costrutto carico di aspettative, dicono come sia destinato al sicuro scacco, seguendo la densità che comunque riesce a farsi largo quando vuole reclamare di sé: non è tanto l’amore in senso lato e astratto, quanto piuttosto l’amare. E il non essere amate.

IL DESIDERIO e il suo collasso, dinanzi a una certa irrimediabile miseria maschile, non è il mero rifiuto bensì la tetragona e pervicace incapacità di sentire l’altra. Nel procedere delle pagine è la magistrale contezza di un dramma piccolo che fa male con la lentezza di uno spillo, consumato nella commedia umana quotidiana, fatta di sprofondi, recessi, attese e comuni fragilità.
L’ambiente famigliare e culturale da cui proveniva Pia Rimini – che firmava articoli nelle riviste del suo tempo ed era apprezzata dalla critica nonostante una strisciante invidia – era di rilievo: di origini ebraiche, poi convertitasi al cattolicesimo, la sua era – sia pure in una vita troppo breve conclusasi con la deportazione – condizione materiale di privilegio rispetto ad altre ben più periferiche scrittrici attive negli anni Trenta del Novecento.

Tra le esperienze segnanti ce n’è una in particolare, ripetuta o declinata quasi ossessivamente in diverse narrazioni, ovvero la nascita di un figlio morto in seguito a una gravidanza avuta all’età di 18 anni fuori dal matrimonio. Della sua licenziosità che oggi, come ieri e domani, è con più semplicità una libertà sessuale indolente verso i cliché sociali, abbiamo la prova certa là dove anche in brevi racconti riesce a contestualizzare il corpo sessuato delle sue personagge, nonostante la morsa storica e di classe in cui si trovavano ad agire.

È UN CORPO che possiede presenza, odori e umori esatti; da quelli della eccitazione di una ragazzina davanti alla lascivia di un uomo molto più grande di lei (prima di riceverne sopraffazione e abbandono) fino alla disfatta della malattia (esperienza straniante ma che rende il tenore di quanto al cedimento delle fibre risponda un più profondo dolore del sé condiviso da altre donne).
Ad avere solidità è soprattutto la capacità letteraria di Pia Rimini nel descrivere senza giudizio la selva di molteplici parabole che mute non sono mai state. Riuscendo a crepitare e cospirare, restano ancora parlanti.