Oh Phnom Penh, nei tre anni della nostra separazione, mi sei mancata e il mio cuore ha sofferto ogni singolo giorno… ora siamo riuniti e sei libera dalla tua sofferenza, cuore e anima della nostra nazione.»

Con queste parole, nella voce di una sopravvissuta agli stermini dei Khmer Rossi, i rivoluzionari che governarono la Cambogia dal 1975 al 1978, si apre e chiude una struggente ballata cambogiana dei primi anni Ottanta.

Sebbene sia stata edificata dai francesi solamente alla metà dell’Ottocento sul sito di quello che era poco più che un villaggio, Phnom Penh occupa un posto speciale nel cuore della popolazione cambogiana. Non per niente, il primo atto dei Khmer Rossi al momento della vittoria nell’aprile del 1975 fu l’evacuazione forzata della città.

[do action=”citazione”]In tre giorni di fuoco, l’intera popolazione – vecchi, bambini e malati inclusi – fu costretta ad abbandonare le proprie abitazioni, ospedali e pagode e a mettersi in marcia verso le aree rurali, il tutto nel pieno della stagione secca, quando le temperature raggiungono facilmente i quaranta gradi.[/do]

Non fu né il primo né l’ultimo di tanti massacri, ma più che di violenza gratuita, si trattava di un gesto simbolico con cui i nuovi dittatori rivendicavano il proprio ruolo di padroni della nazione cambogiana.

Eppure, leggendo le testimonianze di viaggiatori di passaggio per Phnom Penh nella prima metà del secolo scorso, è difficile comprendere come la città sia arrivata a coprire un ruolo simbolico così importante.

In Asia gialla (1926), il giornalista Mario Appelius esprimeva le proprie perplessità nei confronti della capitale cambogiana in questi termini: «Fra cinquant’anni forse sarà forse una bella città. Per ora è troppo nuova. I francesi che l’hanno ricostruita di sana pianta con l’intenzione di gettare le basi di una metropoli si sono preoccupati di rispettare il colore locale … ripetere l’errore di Saigon, di non edificare cioè una brutta città di Occidente in mezzo agli scenari naturali dell’Indocina ed ai ruderi meravigliosi dell’arte ‘kmèr’.»

In The Gentleman in the Parlour – un capolavoro del 1930 purtroppo mai tradotto in italiano – lo scrittore inglese William Somerset Maugham descriveva Phnom Penh come «una città ibrida, costruita dai francesi e abitata dai cinesi; ha strade larghe con porticati in cui si trovano negozi cinesi, giardini formali e, di fronte al fiume, una banchina su cui sono piantati ordinatamente alberi come sulla banchina di qualsiasi città francese in riva a un fiume.»

Anche i padroni coloniali francesi dimostravano una notevole mancanza d’entusiasmo nei confronti della capitale da loro stessi edificata, un marcato contrasto rispetto all’attenzione che riservavano ai templi di Angkor. In Un pellegrino ad Angkor (pubblicato in italiano da O barra O nel 2013), lo scrittore Pierre Loti descriveva la città, che aveva visitato nel 1901, come «persa nell’interno della regione, senza grandi navi, marinai o vivacità di alcun tipo.»

Ai suoi occhi, «tutto ciò che abbiamo costruito a Phnom Penh sembra già vecchio sotto gli effetti del sole cocente; le buone strade diritte che abbiamo costruito sono prive di qualsiasi presenza umana e infestate da erbacce; uno potrebbe credere che si tratti di una delle nostre vecchie colonie affascinanti per il loro abbandono e silenzio.» Aperta ostilità verso la città emerge invece dagli scritti di Andrè Malraux, che nel 1924 fu costretto a trascorrere sette mesi a Phnom Penh in attesa di essere processato per il furto di alcuni bassorilievi in un tempio angkoriano.

In La Voie Royale (1930), un personaggio si abbandonava a queste riflessioni: «L’atmosfera di decadenza gli ricordava qualcosa che aveva visto a Phnom Penh: un cieco che cantava il Ramayana strimpellando una chitarra primitiva. La Cambogia in decomposizione era ben rappresentata da questo vecchio, le cui eroiche canzoni non interessavano altro che mendicanti e serve: una terra posseduta e addomesticata, in cui gli inni così come i templi erano in rovina, terra morta tra i morti.»

[do action=”citazione”]Il tema della morte è ricorrente negli scritti dei visitatori degli anni Ottanta. Ciò è inevitabile se si considera che nel triennio in cui i Khmer Rossi rimasero al potere, circa due milioni di cambogiani – su una popolazione di poco più di sette milioni – persero la vita tra esecuzioni sommarie, fame e malattie.[/do]

Negli anni dei Khmer Rossi, Phnom Penh fu una città fantasma, abitata un manipolo di funzionari e qualche migliaio di soldati e lavoratori, nonché sede di S21, un vecchio liceo convertito in centro di detenzione e tortura dove oltre 18,000 persone trovarono la morte tra sofferenze atroci.

Giunta a Phnom Penh poche settimane prima della caduta del regime per una rarissima visita ufficiale organizzata dagli organi di propaganda dei Khmer Rossi, la giornalista americana Elizabeth Becker trovò una città molto diversa da quella che ricordava: «La Phnom Penh che ho inizialmente intravisto aveva la bellezza precisa di un mausoleo. Il filo spinato arrugginito che aveva strisciato per i suoi parchi, viali e edifici governativi durante la guerra era sparito. Il filo e le barricate erano stati rimpiazzati da vasi di buganvillea e frangipani in fiore. Gli edifici governativi erano stati ridipinti di recente; la stazione ferroviaria era di un nuovo colore corallo, il vecchio ministero dell’informazione di un giallo soffice. I parchi erano immacolati, i prati riseminati e curati, le aiuole diserbate e in fiore. Non c’erano rifiuti sulle strade, niente spazzatura, niente sporco. Ma non c’erano neppure persone, nessuna bicicletta, nessun autobus e pochissime automobili» (When the War Was Over, 1986).

Solo negli anni Novanta, con la fine di un decennio di occupazione vietnamita e l’organizzazione delle prime elezioni democratiche sotto l’egida delle Nazioni Unite, Phnom Penh tornò a vivere. Nessuno è riuscito a catturare lo spirito di quegli anni meglio di Tiziano Terzani, che in una corrispondenza del 1991, raccolta nel volume Fantasmi (Longanesi, 2008), scriveva: «Phnom Penh sembra a prima vista una città fiorente, piena di gente indaffarata. Dalla mattina alla sera la capitale è assordata dallo strombettare delle macchine, dal tintinnio dei risciò, è avvolta dalle zaffate che una ininterrotta fiumana di motorini si lascia dietro. I mercati e i negozi sono pieni di roba. Dappertutto c’è oro: in vendita su innumerevoli bancarelle; al collo, ai polsi, alle dita della gente.» Se ai suoi occhi, Phnom Penh era «una straordinaria, suadente città … una città di grande armonia umana, in cui le pagode sono ancora oggi più alte delle palme e le palme più alte delle case», allo stesso tempo non ignorava come in Cambogia, inclusa la capitale «le notti non riposanti il buio di fantasmi.»

Oggi anche quest’ultima incarnazione di Phnom Penh raccontata Terzani sta rapidamente sparendo. I tempi in cui le pagode dominavano il paesaggio urbano sono definitivamente tramontati, con nuovi, osceni palazzoni che continuano a spuntare come funghi mentre le vecchie ville francesi sono eviscerate per farne hotel di lusso, banche o ristoranti.

[do action=”citazione”]Rimangono fantasmi, ma d’altra natura: droga, malvivenza e prostituzione dilagano, il tutto in un clima di generale impunità.[/do]

Non è certo un caso se l’immaginario letterario della Phnom Penh del ventunesimo secolo è caratterizzato da romanzi ambientati nei bassifondi della città, tra stranieri alla deriva, prostitute, criminali e poliziotti corrotti, inclusi due piccoli capolavori del genere recentemente pubblicati in italiano quali Cacciatori nel buio di Lawrence Osborne (Adelphi 2017) e Notturno cambogiano di Phillip Coggan (O barra O 2018).

Se lo sviluppo economico degli ultimi anni ha indubbiamente beneficiato il popolo cambogiano, oggi come in passato Phnom Penh, «cuore e anima» della nazione khmer, continua a soffrire e a far soffrire.