ll romanzo ha compreso molto presto questa evidenza: l’aria stessa che respiriamo, e il campo su cui si giocano tutte le partite dell’esistere, si identificano con quel colloquio incessante con noi stessi che chiamiamo coscienza. Ai molti testi letterari sulla guerra scritti negli ultimi anni da reduci e partecipanti a diverse operazioni belliche, si aggiunge ora un romanzo che colpisce per la speciale nettezza della visione e la altrettanto singolare qualità della coscienza messa in campo: il titolo è Fine missione e l’autore un assoluto esordiente, Phil Klay, trentaduenne ex marine impegnato in Iraq nel 2007 e 2008, che ha vinto il National Book Award (Einaudi, pp. 250, euro 19,00, traduzione di Silvia Pareschi). Il libro si compone di dodici storie legate assieme dal filo saldissimo delle voci narranti, sempre diverse, sempre in prima persona (per garantire la vicinanza e l’immersione del lettore nel mondo percettivo dei personaggi) e sempre con una sorta di anonimato del «soldato Io» che dalla propria vicenda particolare si fa rappresentativo anche delle vite altrui. È uno schema, questo dei racconti che si tengono insieme e si leggono come un romanzo, già dimostratosi efficace in altri libri notevoli degli ultimi anni: Amore e ostacoli di Aleksandar Hemon, per esempio, e La gente come noi non ha paura di Shani Boianjiu (altro esordio apprezzato e documento precoce di una educazione sotto le armi).
Come la maggior parte dei suoi predecessori, Klay eredita la postura del testimone. Anche se lavora dietro il filtro della fiction, è uno di quelli che sono stati là, è uno che ha visto, ha sentito, ha agito. La sua precisione nella resa dei dettagli è una carta d’identità impossibile da trascurare. Avrebbe potuto comodamente accontentarsi del pattern retorico classico, vale a dire restituire la realtà immediata della guerra come un orrore assoluto; sceglie invece di intrecciare la spietata descrizione della violenza e delle azioni di guerra con uno humour scettico e di cupa saggezza che investe anche il momento del ritorno a casa. Quindi non risparmia al lettore nessuna piega di cinismo e di follia: ci porta davanti agli occhi un universo assurdo in cui ogni empatia umana rischia di scomparire di fronte alla superiore necessità del conflitto (freddura che circola fra i marines: «Che cosa sente un marine quando uccide un uomo?» – Risposta: «Il rinculo»); e nella tensione costante e disperata che riesce a trasmettere alla pagina fa a pezzi ogni eventuale monumentalizzazione della guerra e ogni enfasi mitica sulla condizione dei soldati. I marines di Fine missione fanno i gradassi o gli «esistenzialisti della guerra» («siamo in guerra perché siamo in guerra»), «amano dipingersi come cani rabbiosi dall’aggressività suicida» ma «nel dolore somigliano a bambini». La situazione di costante minaccia e la crudeltà respirata nell’aria stessa hanno cambiato la chimica del loro cervello. Ipervigili, sottoposti a stress interminabili, preda delle più varie ossessioni e della stretta soffocante della paura, adesso si pongono le domande in modo drammaticamente diverso: non più «Perché sono qui?» ma «Cosa si deve fare ora?». Il loro mondo verbale è un reticolo brulicante di acronimi che incarnano lo stato di eccezione permamente in cui l’invasione dell’Iraq li ha precipitati: potrebbero saltare in aria su uno ied (Improvised Explosive Device), essere impegnati in un casevac (l’evacuazione dei feriti) oppure risentire dei gravi effetti di un ptsd (Post-Traumatic Stress Disorder).
In un Iraq che nell’opinione di chi lo guarda da lontano «dovrebbe somigliare a Mad Max» e che nelle fantasie di distruzione più sfrenate si vorrebbe tramutare in una lastra di vetro con la bomba atomica, invaso da tonnellate di dolciumi e di muffin destinati ai coraggiosi combattenti e che però « nessuno mangia», la guerra tecno-mediatica si fa anche a colpi di video: sulle bancarelle si possono trovare i filmati delle torture inflitte dagli «insorti», mentre Youtube pullula di marines che spiegano le particolarità dell’ambiente, delle azioni militari, delle emozioni che si provano in combattimento. C’è uno spreco continuo di risorse, una cecità rivendicata: nel racconto titolato Il denaro come sistema di armamento, la più grottesca spia di una situazione degenerata è il tentativo di un magnate americano dei materassi di esportare il baseball in Iraq proponendolo come sport nazionale, e di conseguenza la remissività bovina con cui i vertici militari propagandano l’idea che dei ragazzi denutriti debbano imparare lo sport in cui «un uomo si erge solo davanti al mondo, pronto a entrare nella storia in un eterno uno contro uno».
Dove si creano parallelismi significativi le pagine di Klay restano memorabili: nel primo racconto, l’eponimo, un marine che in Iraq sparava ai cani, torna negli Stati Uniti e da civile riceve il contrappasso più lancinante, decidendo di mettere fine con tre proiettili all’esistenza del suo cane malato. Oppure, in Dopo l’azione, un soldato ha preso su di sé la responsabilità di un’uccisione quasi insopportabile, sgravandone un altro, e si interroga sul dolore di una bambina che ha visto morire il fratellino dilaniato dalle mitragliate. Gli ricorda una sua sorella quando era piccola; ma i commilitoni minimizzano, come se in un mondo dove si parla solo la lingua della violenza aver visto ogni crudeltà rendesse impermeabili al dolore.
In effetti, quando in Fine missione compare la colpa compare spesso anche il passaggio di un peso da un uomo all’altro: più che di essere scaricato, il peso ha bisogno di essere trasferito (ma questo non basterà a liberarsene). E si apre in questo modo uno spazio per la pietà. Una delle storie più intense, Preghiera nella fornace, introduce un cappellano militare che di fronte all’insensibilità dei superiori affronta il senso di colpa di un marine. Non ha ucciso, ma ha permesso che la recluta più giovane, Fujita, si esponesse al pericolo. Il prete è inquieto, il soldato è tutto nervi, «la faccia contorta da fulminei ringhi rabbiosi», dice di credere nell’inferno ma non sa se deve pentirsi e di cosa. Il religioso arriva a dubitare di ogni consolazione: lo scandalo della sofferenza non può essere alleviato dall’idea che si soffre comunque tutti.
In uguale misura, grazie a sovrapposizioni narrative e flashback, Fine missione dà voce anche al momento del ritorno a casa, alle difficoltà della transizione, alla condizione straniata del reduce che non riesce più a vivere senza il senso di costante allarme che si è trascinato dietro, spesso con conseguenze terribili. Un soldato è anche un uomo che al ritorno riporta a casa delle storie: vere o plausibilmente vere. Magari (come accade nel corteggiamento inscenato in Operazioni psicologiche) sente il bisogno di adeguarsi al luogo comune che impone di vedere nel marine uno che abbia avuto «qualche incontro devastante con la Realtà: il duro, violento, crudo mondo-così-com’è»: e allora la sua ferita diviene un mezzo per manipolare il mondo dei civili. Anche e soprattutto in questo caso Klay non scivola nel cedimento alla retorica del reduce, e accenna alla necessità di aprire una discussione più ampia sulle ragioni e sul modo di condursi degli americani non solo in Iraq.
Nel poemetto Un freddo venire, Tony Harrison aveva dato la parola al cadavere carbonizzato di un soldato iracheno della guerra del ’91: «I Greci vittoriosi non invitarono Ettore / a unirsi, spettro incomodo, al loro banchetto, / e chi vorrebbe rovinare la gioia / alle madri anziane dell’Iowa o dell’Illinois / in festa perché i loro bambocci si sono salvati?». Qui non c’è vittoria, non c’è nessuna gioia e ben poco onore: come il poeta inglese, Phil Klay racconta, espone la ferita, non assolve e continua a insistere nella sua interrogazione urgente e dolorosa. «“In Iraq abbiamo raccontato alla gente un sacco di verità e un sacco di balle. Certe balle funzionavano benissimo”. – “È strano pensare che qualcuno lo faccia di mestiere”».