«Ottenere prima la cittadinanza può aiutare a creare una comunità più grande. Invece sembra di essere nemici», dice Phaim Bhuiyan. Attore, regista e sceneggiatore di 26 anni, ha raccontato l’incontro tra culture e le avventure dei ragazzi di seconda generazione nel quartiere romano di Torpignattara. Bangla è il titolo di film (2019) e serie (2022) che ha girato.

Quando si discute di legge sulla cittadinanza c’è sempre qualcuno che dice: le urgenze sono altre. Stavolta inflazione e bollette. È così?

Mi chiedo perché ci sia questa paura di affrontare l’argomento. Come fosse un tema minore. I problemi vanno messi sullo stesso piano. Michael Jordan diceva: «Se neanche ci provi è già un fallimento».

Quanto è sentito il tema tra i ragazzi della sua generazione?

Molto. Io per esempio percepivo di essere italiano, ma anche di trovarmi in una sorta di limbo. Né carne, né pesce. Mi sono chiesto come possa influire un semplice pezzo di carta. Ma è con quello che si può votare, partecipare ai concorsi pubblici, rappresentare il Paese nello sport agonistico, viaggiare senza dover richiedere svariati visti. Avere la cittadinanza è importantissimo. Soprattutto per chi arriva a uno o due anni e quindi non può ottenerla a 18, come me.

Non è meglio attendere la maggiore età per fare una scelta consapevole, come prevede la legge attuale?

Chi vuole la cittadinanza dovrebbe avere diritto di chiederla. Una persona si forma nel suo percorso. Aspettando i 18 anni si perde solo tempo. Ottenere prima la cittadinanza può aiutare a creare una comunità più grande. Invece sembra di essere nemici.

Che significa andare a scuola senza essere cittadino italiano?

Banalmente: dover rinnovare il permesso di soggiorno. Con la mia famiglia andavamo all’ufficio immigrazione a Tor Sapienza. Devi metterti in fila, aspettare. Nonostante sei nato qui, frequenti le scuole, i tuoi pagano le tasse. Poi c’è l’etichetta, sulla carta c’è scritto: straniero. Ti si può appiccicare sopra. Rischi di crederci.

In «Bangla» Pietro Sermonti, che interpreta un padre aperto e democratico, dice: «Non si riesce a fare una legge per cui uno che nasce in Italia è italiano. Mi posso incazzare?». Lo ius scholae è sufficiente o serve lo ius soli?

Servirebbe lo ius soli ma mi rendo conto che dobbiamo andare per sfumature. È un periodo di transizione e forse passare da A a B in maniera drastica risulta difficile. Lo ius scholae può essere utile per mostrare che avere paura è sbagliato. La paura nasce quando si dice che si darebbe la cittadinanza alle baby gang, come se le seconde generazioni fossero quello.

Le «baby gang» dei ragazzi di seconda generazione hanno una sovra rappresentazione mediatica o esprimono un disagio particolare?

Non bisogna mai generalizzare. È possibile che chi non ha avuto le stesse opportunità degli altri, sbagliando, finisce per strada. Ma che cambia se è straniero o italiano? Il punto dovrebbe essere offrire opportunità di formazione, lavoro, speranza. E comunque si tratta di una minoranza, che c’è anche tra gli italiani. I ragazzi di seconda generazione che vanno all’università o lavorano hanno meno attenzione mediatica.

Nei suoi lavori Torpignattara non è uno sfondo, ma gioca un ruolo attivo nella narrazione. Più che includere o escludere, il quartiere ha assunto una nuova identità attraverso i flussi migratori. È un modello?

Prima Torpignattara era luogo di transito per i migranti che venivano dall’Abruzzo o dal Sud. Era il periodo della richiesta di manodopera per l’industria edile. Poi si è trasformata in una zona di migranti dall’estero. Può essere un modello ma resta il problema che le comunità spesso non si parlano. Conoscendo quella del Bangladesh so che non riesce a comunicare. A volte semplicemente per la lingua. L’italiano è complesso. Se arrivi qua e hai difficoltà di apprendimento tendenzialmente stai con quelli del tuo Paese e non lo impari mai. Le seconde generazioni devono fare da ponte, ma serve tempo.

Lei si ispira a Zerocalcare?

Non lo avevo come referente. Ma me lo chiedono spesso. Forse è successo in maniera inconscia.