Senza dubbio il caso dei Pfas trovati nelle acque venete, che ha coinvolto una trentina di comuni situati nelle province di Vicenza, Verona e Padova e circa 350 mila cittadini, è uno dei più grandi disastri ambientali che riguardano l’inquinamento dell’acqua. Il processo, che inizia oggi (1 luglio), farà luce sulle colpe, ma quello che mancava sino a questo momento era il punto di vista sul deterioramento della qualità di vita della popolazione che abita nella cosiddetta «zona rossa» contaminata da Pfas. Ci hanno pensato Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto del Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova con il libro Cattive acque. Contaminazione ambientale e comunità violate – che si può scaricare gratuitamente (https://www.padovauniversitypress.it/publications/9788869382437) – e che è il frutto di tre anni di lavoro nelle aree contaminate, incontrando donne e uomini.

Professor Zamperini, nel libro si parla di psicologia sociale dei disastri ecologici. Cosa intende?

Oggi è davanti agli occhi di tutti coloro che vogliono vedere l’impatto devastante dell’economia globale sull’ambiente. Se indubbiamente i costi ambientali sono più alti nelle nazioni del Sud del mondo, ciononostante, l’elenco di corsi d’acqua avvelenati e di aree geografiche inquinate è infinito anche nei Paesi del Nord. In termini di danni biologici, l’elenco è devastante: tumori, disturbi renali, malattie cardiovascolari e respiratorie, sterilità, patologie neonatali e altro ancora. Molto spesso questi costi in termini di salute vengono rimossi e assistiamo anche alla rimozione delle vittime dei disastri ambientali che diventano invisibili, magari riassunte in qualche dato statistico, nulla di più. La psicologia sociale dei disastri ecologici combatte questa rimozione e punta invece a rimettere al centro dell’attenzione donne e uomini che concretamente subiscono una violenza ambientale. Questo è quanto accaduto anche con i Pfas.

Lei scrive «i Pfas non si limitano a colpire la salute fisica ma, come tutti i disastri ambientali, incidono negativamente anche sulla salute mentale». Tutto ciò è inquietante…

Indubbiamente. Simili eventi possono generare vere e proprie sindromi psicopatologiche e uno stress psicosociale cronico. Ho impresso sulla retina le immagini del viso angosciato di una madre intervistata mentre mi raccontava di aver trasmesso i Pfas alle figlie tramite l’allattamento e già durante la gestazione. Lei, per così dire, biologicamente si era liberata dei Pfas, però trasmettendoli alle figlie. Un prezzo affettivamente molto oneroso. Questa madre non è certo colpevole di aver avvelenato la falda acquifera della sua zona, eppure vive un profondo senso di colpa. Diventa dura per lei, come per altre intervistate con problematiche simili, continuare a fare la madre. Per non parlare del furto del futuro. Nelle comunità contaminate da Pfas il futuro è depotenziato dalla probabilità di malattie. Il futuro richiamato nel presente è fatto di preoccupazioni e angoscia per sé stessi e i figli: molti temono di sviluppare malattie, anche mortali, nell’arco di pochi anni e vivono con ansia piccoli problemi di salute, temendo di trovarsi di fronte a patologie più invalidanti.

Ad oggi, i risultati del biomonitoraggio fotografano una popolazione impreparata e preoccupata. Eppure le varie comunità si sono organizzate, come nel caso delle «Mamme No Pfas», mantenendo alto il livello di attenzione.

Verissimo. E come in altre vicende analoghe sono state le donne ad agire prontamente. Lo studio del movimento delle Mamme No Pfas occupa molte pagine del libro proprio per testimoniare il ruolo cruciale che hanno svolto per portare attenzione attorno a un fenomeno impercettibile. La scelta di battezzarsi Mamme No Pfas attinge al registro simbolico della genitorialità per presentarsi alla comunità con un chiaro messaggio che ne legittima l’impegno e la protesta. Interessanti sono anche le strategie adottate per sensibilizzare la pubblica opinione. Poiché il biomonitoraggio permette di tradurre in cifre la presenza biologica della sostanza nociva, ecco che la strategia adottata è stata quella di ri-portare il dentro al di fuori: le Mamme No Pfas si mostrano agli occhi della collettività indossando una t-shirt bianca con la scritta del nome del proprio figlio e i suoi valori di Pfas nel sangue. Nel libro paragoniamo queste t-shirt alle pietre d’inciampo disseminate nelle città che volutamente puntano a far incespicare il passante distratto per richiamarlo al ricordo del dramma della Shoah, così le magliette con i numeri dell’avvelenamento cercano di attirare attenzione, chiedendo alle persone di soffermarsi e pensare al dramma della contaminazione ambientale.

Andando a incidere sulla salute mentale dei cittadini, inevitabilmente il tutto si ripercuote sulla qualità di vita delle comunità nelle aree contaminate. Come si dovrà intervenire in queste zone per portare un po’ di serenità?

Il primo passo è sicuramente quello di ascoltarli. Smetterla di tacciarli di allarmismo e cominciare a prendere sul serio il problema della bonifica delle acque e del territorio. Ma, come purtroppo l’esperienza insegna, non si tratta di azioni che si realizzano con uno schiocco di dita: servono risorse e tempo. E mentre si deve dare il massimo per la bonifica ambientale, nel frattempo non bisogna abbandonare a sé stessi i residenti. Serve quindi un’assistenza adeguata e nel tempo. Inoltre, il grande impegno profuso nell’azione collettiva non deve far dimenticare i singoli e le loro famiglie, con il relativo carico di esperienze intrise di irrazionalità, incertezza, ansia e speranza. Perché se molti sintomi sono, per il momento, silenti, la sofferenza fa rumore. Non bisogna abbandonare queste comunità pensando che installando dei filtri idrici per trattenere la sostanza il problema sia completamente risolto.

Il libro si conclude ricordando che «il viaggio è ancora lungo e tante pagine bianche vanno ancora scritte. Parecchie sono le domande inevase e molti i problemi da affrontare…». Quali?

Per esempio, ricevere i risultati di un esame che attesta un’alta concentrazione di Pfas nel proprio organismo equivale a ricevere una cattiva notizia che potrebbe anche essere percepita come particolarmente minacciosa. Serve quindi attenzione e un atteggiamento empatico non sempre riscontrato nel rapporto tra operatori sanitari e cittadinanza. La mobilitazione pubblica è stata importante, ma non sono poche le madri che hanno pagato in prima persona questo impegno. Una mamma raccontava che sua figlia, di nascosto, era riuscita a cancellare dal suo smartphone ogni contatto ai social dedicati ai Pfas. Una chiara richiesta di affetto e presenza e un bisogno minacciato dall’impegno collettivo della madre. Questa madre e sua figlia non vanno lasciate sole. Nessuna famiglia va lasciata sola.