L’idea della scrittura come testimonianza viva di una civiltà, segno di uomini decisi a lasciare un ricordo di sé nel tempo e nello spazio, come individui e come collettività, comunicando non solo contenuti, ma forme culturali, modi di pensare e di agire si riflette nel titolo della rivista fondata e diretta per anni da Armando Petrucci: “Scrittura e civiltà”. Il gesto della mano che scrive su un foglio, incide o scolpisce sul marmo, disegna con un carboncino o con lo spray su un muro, riflette movimenti della psiche culturalmente condizionati, “politici” in quanto espressione pubblica di un pensiero. Riconoscere una civiltà nella sua scrittura è un atto umanistico, riporta in vita idee ed emozioni, desideri e speranze di uomini e donne che sono già svaniti o che lo saranno, ma che scrivendo hanno deciso di restare e comunicare di esserci stati, nel loro “qui ed ora”, e di aver pensato, agito, trasformando la natura in cultura, il puro dato in valore. Come scriveva Roland Barthes, «bisogna durare un po’ più della propria voce».

La proposta innovativa di Armando Petrucci non consiste solo nell’accostare il binomio «scrittura e civiltà», ma nel trarne la conclusione che «scrittura è civiltà». Tornano alla memoria i suoi studi sulla scrittura di Petrarca, sulla composizione del Canzoniere Vaticano, sull’autografia nella cultura medioevale e moderna, sullo «scrivere lettere» lungo 5000 anni di storia dell’Occidente. La nostalgia per la sua bella figura di uomo ironico e generoso rinnova e arricchisce oggi il ricordo di quelle pagine fondamentali, che escono per le cure di tre fra i primi e più autorevoli dei suoi allievi, a loro volta ormai maestri, in una raccolta pressoché completa degli articoli e delle interviste pubblicati su giornali o riviste non specializzate, con il titolo Scritti civili (a cura di Attilio Bartoli Langeli, Antonio Ciaralli, Marco Palma, Viella, pp. 289, € 29,00).

La maggior parte degli articoli riuniti (43 su 54) sono apparsi su questo giornale: dal 1972 al 2000 «il manifesto» è stato un punto di riferimento per Petrucci, proprio in quanto «quotidiano comunista», per una scelta di cultura e di civiltà. Come dicono a ragione i curatori, gli scritti “occasionali” dimostrano la personalità complessa, variegata di Petrucci: «Leggendo queste pagine ci si renderà presto conto di come sia difficile, e anzi impossibile districare l’attività dello studioso da quella dell’intellettuale e quella dell’intellettuale da quella del militante». Petrucci fu «uomo “politico”, anzi, “della politica”», e «trovò nel campo della storia della scrittura il modo migliore per manifestare la sua militanza. (…) Questa era la sua paleografia: una manifestazione specifica e peculiare della lotta di classe».
La scelta di eleggere nel titolo l’aggettivo civile va in questa direzione: sono pagine “civili” perché riguardano una militanza mai dismessa; ma anche perché «”civile” assume qui il valore di “civiltà”». Un bell’esempio si trova nell’articolo dedicato a un libro di Paolo Cammarosano sull’Italia medievale («il manifesto», 28 febbraio 1992), che si chiude con questo invito: «Ora occorre realizzare tale nuova immagine nella ricerca e nella didattica, trasfondere la ricerca in conoscenza e trasformare la conoscenza in coscienza comune». Quando scrive pagine di alto specialismo o recensioni, quando rende conto di un convegno o esamina fatti di cronaca relativa alla vita universitaria, Petrucci va sempre al cuore dei problemi politico-culturali: lotta «per la civiltà e, in questa, soprattutto per la civiltà della scrittura».

Il libro si apre con la lettera di dimissioni («il manifesto», 27 dicembre 1972) spedita al Presidente della Medieval Academy of America con una motivazione estrema, nitida, che contestando l’«uso spietato della forza» e il «massacro generalizzato di un popolo» perpetrato dagli Stati Uniti in Vietnam conclude: «le mie convinzioni politiche e la mia stessa coscienza mi impediscono di continuare ad avere una qualsiasi forma di rapporto con l’America ufficiale». Seguono numerosi interventi sulla situazione dell’Università italiana, sulle leggi e i decreti di quegli anni. È difficile ricordare oggi chi e che cosa siano stati il ministro Malfatti o il «decreto Pedini» e quanti danni abbiano contribuito ad accumulare nel nostro sistema formativo superiore: ma gli articoli di Petrucci apparsi su «Fabbrica aperta» nella primavera 1977 e sul «manifesto» nel novembre 1978 rimangono una accurata analisi di quel «problema dell’Università» e dei «molti errori della sinistra» di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze.

Ripercorriamo in queste pagine la vita di un uomo che è stato, al tempo stesso, operaio della cultura e intellettuale raffinato, maestro fra i più alti di una disciplina di severo tecnicismo quale la paleografia e tenace comunista, lottatore appassionato per la difesa dei diritti umani e civili, professore rigoroso quanto affabile, ironico, adorato dai suoi studenti (in copertina una bellissima fotografia lo mostra sorridente, seduto con molti giovani sulle scalinate della «Sapienza»).
Petrucci ha contribuito a mettere in luce come le strutture del pensiero si riflettano nei modi di produzione e organizzazione dei testi, nell’architettura dei libri e nelle tracce di vita che il tempo trasforma da testimonianze quotidiane in monumenti di un’epoca. Invitato dal «Corriere della Sera» (gennaio 1999) a commentare la decisione del sindaco di Milano, Gabriele Albertini, «di avviare nella città una campagna di interventi repressivi contro i cosiddetti “graffitisti”», Petrucci ricorda un suo dialogo con Italo Calvino nel 1980 intorno al «paesaggio urbano contemporaneo», e ripercorre una storia della città come «ideale luogo di scrittura esposta».

L’originale attenzione di Petrucci per le forme della comunicazione urbana attraverso quella che lui stesso battezzò appunto scrittura esposta fu ininterrotta: in questo libro la testimoniano almeno l’intervista rilasciata a Domenico Starnone per il «manifesto» del 13 dicembre 1980 e l’intervento del 1984, «inedito (o quasi inedito)», a un seminario su Lavoro e cultura nella storia dei movimenti di lotta romani dal dopoguerra ad oggi, che muovendo da Roma antica e da Pompei arriva a individuare nel diario di Pietro Calamandrei il riferimento a «scritte alternative di partigiani e di fascisti sui muri di Firenze nel periodo dell’occupazione tedesca e della Repubblica sociale, che prefigurano determinate situazioni che si ripeteranno nel periodo più recente della storia urbana».

Ma le parole più calorose di Armando Petrucci si trovano nei ripetuti, dolenti ricordi per la precoce scomparsa di Giorgio Raimondo Cardona, il grande linguista che fu per lui e per tanti di noi quotidiano compagno di avventurose ricerche nella direzione di una storia sociale delle scritture: ne ricorda la Storia universale della scrittura (1986) e soprattutto la splendida Antropologia della scrittura (1981), che lui stesso fece ristampare nel 2009 premettendovi pagine importanti. E quando leggiamo, dedicate a Cardona, le parole in cui Petrucci condensa il valore della sua esistenza di uomo totale, è proprio a lui, Armando, che pensiamo: «Nessuno poteva seguirlo attraverso la fitta trama delle sue molteplici competenze, tutte apparentemente centrifughe e fra loro lontane; tutte, in realtà, centripete e guidate dalla sua suprema capacità di sintesi, verso un grumo unitario consistente nel confronto e nel rapporto fra attualità linguistico-grafiche e società».