Il golfo di Gabès può tirare, in parte, un sospiro di sollievo: nelle cisterne della nave Xelo, affondata sabato scorso, non c’è petrolio ma acqua di mare. È il risultato dell’ispezione condotta ieri sul relitto, a 15 metri di profondità, da sommozzatori tunisini e italiani. Sul posto, infatti, c’è anche il pattugliatore Vega della marina italiana, che fornisce assistenza. Il colpo di scena è clamoroso perché dal giorno del naufragio i ministeri tunisini di Trasporti e Ambiente avevano parlato di un carico di 750 tonnellate di carburante.

«La notizia veniva dal comandante della Xelo che ha rilasciato una dichiarazione ufficiale. Gli abbiamo creduto e preso tutte le precauzioni necessarie a evitare un possibile disastro. Non sappiamo perché ha mentito, lo accerterà la magistratura», spiega al manifesto il capitano di vascello Mezri Letaief, a capo dell’unità di crisi. Singolare che le autorità non abbiano verificato l’informazione, ad esempio con il porto di imbarco del carico. Anche perché era stata dichiarata la provenienza dalla città egiziana di Damietta, ma la notizia si era presto rivelata falsa.

Mercoledì il tribunale di Gabès aveva disposto il divieto di viaggio per i sette membri dell’equipaggio: quattro turchi, due azerbaigiani e un georgiano (il capitano). Ieri ha spiccato i mandati di arresto con le accuse di «formazione di organizzazione criminale, sabotaggio di nave e danni a cose altrui e dello Stato». L’ispezione, riferisce Letaief, ha accertato che gli strumenti di navigazione e il localizzatore gps erano stati distrutti volontariamente. Sembrerebbe farsi strada l’ipotesi che l’equipaggio abbia affondato la nave. Giovedì il manifesto aveva rivelato che l’assicurazione sarebbe scaduta il 26 aprile. A stabilire come sono andate le cose ci penserà la magistratura, che nei giorni scorsi ha aperto due inchieste: una per disastro ambientale e l’altra sulle cause del naufragio.

Da subito la vicenda aveva mostrato molti punti oscuri. Oltre alla rotta della nave, sparita dai radar otto giorni prima di affondare, lo stesso nome Xelo e l’autorità di bandiera della Guinea Equatoriale presentano ombre. Tali risultano all’Ais (Automatic identification system), mentre nel registro dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo) la nave si chiama Melo ed è camerunense. Ieri la Guinea Equatoriale ha annunciato la sospensione di ben 395 navi battenti la sua bandiera in maniera «illegale».

Nello svolgimento della vicenda è risultato strano anche il comportamento delle autorità tunisine che di fronte a una possibile catastrofe ecologica non hanno chiesto l’intervento del Rempec (Regional Marine Pollution Emergency Response Centre for the Mediterranean Sea), il centro specializzato in questo tipo di incidenti che ha sede a Malta.

Diversi osservatori e analisti hanno ipotizzato che la nave fosse coinvolta nel contrabbando di petrolio libico, forte in quella zona del Mediterraneo. Anche su questo indagano gli inquirenti. In ogni caso, pur senza tonnellate di idrocarburi, in fondo al mare c’è un altro grosso relitto con chissà quali residui. Tunisi ha comunicato che studierà un eventuale salvataggio e traino «in una fase successiva».

CORREZIONE 23/4/22

La Guinea Equatoriale ha ritirato la bandiera dalle navi che la utilizzavano «illegalmente» mercoledì e non venerdì. Teodoro Nguema Obiang Mangue, vicepresidente del paese e figlio del capo di stato, ha scritto su Twitter: «Esistono oltre 300 barche nel mondo che lavorano con la nostra bandiera in modo illegale. La bandiera della Guinea Equatoriale non può essere la faccia di frodi internazionali».