E’ difficile pensare che Oriana Fallaci potesse suonare un campanello con timidezza. La sua scampanellata ce la immaginiamo semmai risoluta, impaziente se non spavalda, energica. Lei stessa ha raccontato di avere imparato presto dal suo mestiere a prepararsi senza imbarazzo per qualsiasi intervista. Chiunque si fosse trovata davanti, le bastava riflettere, quel giorno si era lavato la faccia come lei, e come lei ogni tanto piangeva. Eppure la mattina del 2 luglio 1963 suonò il campanello della casa romana di Natalia Ginzburg allungando una mano «piena di timidezza». Forse perché la leggeva dai tempi del liceo e ammirava quel suo «stile secco, virile»; forse perché lei era la vedova di Leone Ginzburg, «morto a trentaquattr’anni di torture e percosse durante l’occupazione tedesca». O forse perché aveva paura di rimanere delusa incontrandola, come succede spesso con gli scrittori, che visti da vicino sono il più delle volte «vanitosi, incapaci di umiltà e meno intelligenti» di quanto si creda.
Diminuì quella paura non appena la scrittrice venne ad aprirle la porta, addosso aveva una gonna e un golfino bluette, «l’aria un po’ goffa di certe zie cui si ha sempre un favore da chiedere e di cui non si conosce l’età». Sparì del tutto mentre porgendole una tazzina di caffè si sedette accanto a lei su un grande divano e le chiese a braccia conserte, con una bella voce da «donna fatale» ma una «perpetua tristezza» nello sguardo, se le sarebbe mai riuscito di rispondere alle domande senza impappinarsi. Due giorni dopo Natalia Ginzburg vinse il premio Strega con Lessico famigliare, il suo romanzo più famoso.
Chissà se il divano della casa in piazza Campo Marzio sarà stato ancora lo stesso quando, più o meno vent’anni dopo, Natalia Ginzburg ci si accomodò per incontrare un’altra trentenne, in questo caso un’aspirante scrittrice cui doveva restituire il manoscritto di un romanzo che non le era piaciuto. Quella ragazza ricorda che dal divano parlava sporgendosi oltre il bracciolo verso di lei, seduta in una poltrona di fianco; ricorda anche che la sentì dispiaciuta e sincera. Racconta tuttavia che rimase «ferita da un eccesso di durezza» e dopo, uscendo da quella casa, si accasciò sui gradini della scala buia e si mise a piangere.
Esordiente nel 1987 con quel romanzo di cui Natalia Ginzburg non era persuasa, narratrice ormai conosciuta anche per i libri dedicati alle case e alle vite delle scrittrici, Sandra Petrignani sceglie proprio quel suo pianto di ragazza per aprire oggi il denso, voluminoso La corsara Ritratto di Natalia Ginzburg (Neri Pozza «I narratori delle tavole», pp. 459, € 18,00). Se il titolo evoca un’immagine ventosa, piratesca e controcorrente della protagonista, comunque inafferrabile sulla scia dei pasoliniani Scritti corsari, il sottotitolo sembra definire una forma anfibia: non proprio una biografia, non una monografia critica, ma una narrazione che pur mantenendo un fermo punto prospettico, anche una cornice esattamente squadrata nello spazio, si propone in primo luogo come un percorso aperto, permeabile alla creatività e allo scambio tra diversi, forse opposti modelli letterari.
Opere narrative e articoli di giornale, interviste e recensioni, lettere, testimonianze degli amici, impressioni o memorie di conoscenti: Petrignani si serve di fonti molteplici, spesso tra loro anche molto distanti se non discordi, per ricostruire la complessa, non di rado impenetrabile e sfuggente personalità di Natalia Ginzburg. Si dipana tuttavia da quel primo incontro e da quel pianto il filo più robusto, benché sottile, impiegato per cucire insieme i momenti a tratti anche dissonanti però coesi della sua storia. Spostandosi tra le diverse città e le diverse case abitate dalla scrittrice, lavorando sulle proprie impressioni non solo di lettrice ma anche di viaggiatrice, sostando a decifrare lungo il cammino le innumerevoli impronte lasciate dai passi di chi fu per la sua protagonista un compagno di strada, Petrignani costruisce un disegno che somiglia non tanto a un volto quanto a un paesaggio. L’autrice racconta con La corsara un’intera generazione, un tempo eroico al cui declino le è capitato in sorte di assistere: li racconta, quasi un’autobiografia mascherata, utilizzando il proprio destino e il proprio stesso corpo.
C’è, all’inizio di uno dei primi capitoli, una definizione forse involontaria ma esatta. L’autrice sta partendo alla ricerca della casa di Pizzoli, in Abruzzo, dove i Ginzburg vissero al confino: mentre sale in macchina chiama il libro a cui sta lavorando un «affondo in Natalia». È un sostantivo tutto corporeo che evoca uno sforzo muscolare: l’azione necessaria per vibrare un colpo nella scherma, un piegamento con una gamba spostata in avanti nella ginnastica. Si tratta insomma di qualcosa che appare insieme un attacco e un inchino, evoca la ferita e l’omaggio.
Una pulsione ambigua, dunque, non troppo dissimile da quella che Natalia Ginzburg descriveva nel 1983 a proposito di un suo romanzo appena uscito: «E poi scrivendo non provavo né simpatia né antipatia per nessuno: mi sembrava di averli inventati io, tutti quei personaggi, e mi ispiravano sentimenti confusi, fatti di amore e di odio». Il romanzo è La famiglia Manzoni, una «specie di biografia collettiva» secondo Petrignani. Senza dubbio, in parole non così perentorie, il romanzo più vicino a una biografia che Natalia Ginzburg abbia mai scritto.