«Quello che viene proposto è, se si vuole, un ritratto; ma questo ritratto non è psicologico, bensì strutturale: esso presenta una collocazione della parola: la collocazione di qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all’altro (l’oggetto amato), il quale invece non parla (…). Il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine. (…) Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione».

In Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (1977), riflessione sull’amore e sulla sua espressione letteraria, non compaiono riferimenti a testi medioevali, eppure queste righe sembrano parlare di poesia petrarchesca, sin dal titolo: la sostanza solitaria dell’amore e il suo dar luogo ad un «odine di discorso» caratterizzato dalla forma del frammento sono i cardini del Canzoniere, il cui titolo d’autore, è, appunto, Rerum vulgarium fragmenta. Fu di Barthes, ed è ancora profondamente nostra, la maniera petrarchesca di concepire lo stato dell’amante: solitudine e paradossale fuga da ogni luogo come oggetto e fondamento del discorso amoroso. In Petrarca l’«estrema solitudine» del discorso amoroso è «strutturale» molto al di qua del lessico strutturalista di Barthes: lo è in senso geografico e paesaggistico, come dialettica tra i luoghi, tutti impossibili per il tormento del poeta – amante, che li attraversa in un continuo movimento di fuga.

Il soggetto inquieto

La nascita petrarchesca reca la cifra medievale e dantesca dell’esilio da Firenze. Di famiglia fiorentina, il poeta viene alla luce ad Arezzo, da una famiglia di guelfi bianchi in esilio, il 20 luglio 1304, giorno in cui la storia decreta, attraverso la battaglia della Lastra, che i bianchi non rientreranno a Firenze. Francesco fa di questa condizione la stella del proprio destino spirituale («concepito in esilio, in esilio sono nato, dopo un parto così difficile che medici e levatrici credettero che mia madre ne sarebbe morta», Fam. I, 1, 24) ed apre le Lettere Familiari con un autoritratto di poeta in esilio non tanto e non solo da singoli luoghi, quanto, soprattutto, dalla vita in quanto tale («Ho conosciuto il pericolo prima di nascere, e sono giunto alla soglia della vita accompagnato da presagi di morte», Fam. I, 1, 24).

«Peregrinus ubique» («ovunque in viaggio», Ep. III, 19, 16), più di quanto non lo sia stato Ulisse (Fam. I, 1, 21), Petrarca trasforma la dimensione oggettiva, cristiana e dantesco, della vita terrena come passaggio, nella radicale soggettività dell’inquietudine, sospesa tra un ideale stoico di solitudine come atarassica distanza dal mondo e una realtà passionale d’ispirazione malinconica, che lo condanna alla percezione di sé come alienus da ogni luogo. L’opposizione tra luogo reale e luogo ideale diviene nella storia di Petrarca, opposizione tra due luoghi confinanti, tra la città e il suo contrario: Avignone, la città papale rumorosa, fiorente di commerci, popolosa e spiritualmente agonizzante, che lo accolse bambino, al seguito del padre Petracco, notaio, nel 1312, e il ritiro campestre e solitario di Valchiusa, dove il poeta si trasferì, adulto e desideroso di studiosa solitudine, nel 1337.

Il conflitto con la socialità, la dialettica tra luogo ideale e luogo reale, insomma quel carattere di solitudine causata dall’estraneità ad ogni luogo che è nei Rerum vulgarium fragmenta condizione primaria dell’attività poetica nasce dagli elementi più arcaici della cultura medioevale: cioè dalla concezione monastica e patristica della solitudine più che dalla concezione sostanzialmente politica dell’uomo affermata da certa cultura scolastico aristotelizzante. La descrizione di Avignone come nuova Babilonia, che Petrarca affida ai sonetti 136, 137 e 138 (Rvf, 136: «nido di tradimenti, cui si cova / quanto mal per lo mondo oggi si spande / de vin serva, di lecto e di vivande / in cui luxuria fa l’ultima prova») è animata da suggestioni agostiniane che, per il loro carattere apocalittico e antimondano, anticipano l’ansia di rinnovamento spirituale e le inquietanti visioni di città demoniache tipiche della devotio moderna e dei suoi esiti vicini alla Riforma.

L’Avignone -Babilonia dalle strade brulicanti, in cui gli intellettuali riducono la scienza a flatus vocis e fanno mercimonio della verità (De vita solitaria, 1346), il prototipo dell’iconografia della cristianità sconvolta dal vizio e trasformata in civitas diaboli fiorita alla vigilia della frattura luterana (ad esempio nel pannello infernale del Trittico del carro di Fieno di Hyeronimus Bosch, 1516 c.ca), è per il poeta anche luogo di rivelazione della bellezza mondana (Laura, incontrata il 6 aprile 1327 nella Chiesa di Santa Chiara) e poi, ventuno anni dopo, sede della radicale transitorietà delle cose terrene: morta Laura nella grande peste del 1348, annota Petrarca nel suo libro virgiliano, «il legame più forte è spezzato (…) è tempo di fuggire Babilonia».

Nonostante il grande monito apocalittico della peste, e nonostante il vario e costante tentativo petrarchesco di presentare la propria biografia come divisa tra una prima fase di amore per il mondo – cioè per Laura e per la letteratura – e una seconda fase di conversione alle cose celesti, le due cathene adamantine che legano Petrarca al mondo (così descritte nel III libro del Secretum, 1347-1353) continuano a tormentare il poeta anche nel luogo antimondano per eccellenza, cioè a Fontaine de Vaucluse, borgo a vicino Avignone dove il egli ha acquistato una casetta nel 1337 per vivere una vita di studio solitaria, nuovo modello intellettuale che egli contrappone a quello scolastico, universitario e cittadino.

Eremitaggi e tormenti

I monti che delimitano la valle (a nord-est i bianchissimi rilievi che prolungano le Alpi, a sud il complesso montuoso del Luberon) imprimono all’opera petrarchesca un moto di elevazione fisica e spirituale (l’ascensione al Monte Ventoso con un maestro di virtù eremitica, il fratello Gherardo, monaco certosino, Fam. IV, 1), ma anche l’inquieta, orizzontale fuga di selva in selva e di poggio in poggio causato dal tormento amoroso (Rvf, 142: A la dolce ombra de le belle frondi / corsi fuggendo un dispietato lume / che’nfin qua giù m’ardea dal terzo cielo; / et disgombrava già di neve i poggi»).

Il rifiuto del consorzio umano causato in Petrarca dall’amore infelice per Laura, grande filo tematico dei Rerum vulgarium fragmenta, culmina nell’immagine della grande dannazione alla solitudine contenuta nel sonetto 35. La solitudine che Petrarca idealizza come mezzo di purificazione intellettuale e di ricomposizione della frattura passionale (De vita solitaria; De otio religioso) non abita qui: qui regna il suo doppio negativo. L’isolamento che altrove è conversazione interiore con Dio individua qui uno spazio solo naturale e terreno: anzi, conchiude tutto lo spazio terreno in una inesorabile desolazione. Delle selve, che sono il suo luogo naturale, l’amante disperato soffre al contempo l’ampiezza e il limite: troppo grandi per non sentirsi soli con sé stessi, troppo piccole per sfuggire a sé stessi e ai propri stati d’animo (Rvf , 35: «Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so, ch’Amor non venga sempre /ragionando con meco, et io co llui»).

Questo spazio che la disperazione rende vuoto e soffocante al contempo è forse il più sostanziale ossimoro petrarchesco; la natura di Valchiusa, animata da un’opposta tensione fisica – la quieta e verticale elevazione verso Dio, e il tormentoso vagabondaggio «di selva in selva» – affida alle acque l’immagine della bellezza di Laura (canzone 126: «chiare fresche e dolci acque ove le belle membra pose / colei che sola a me par donna») e al contempo il segno della sua mutevolezza, transitorietà, fuga (Rvf , 142: «Selve, sassi, campagne, fiumi et poggi / quanto è creato, vince et cangia il tempo»).