«Conoscete Vjazemskij? – chiese una volta qualcuno al principe Golovin. – Certo! È quello che si veste in modo strano. – E poi uno cerca di farsi un nome…! Puoi essere stato il pupillo di Karamzin, l’amico di Žukovskij, puoi aver scritto poesie, alcune delle quali esemplari, sempre a detta di Žukovskij, e sarai conosciuto solo per un gilet dai colori vivaci o per i pantaloni larghi». Suona così uno degli inaspettati autoritratti, dalla cifra narrativa imperniata sulla boutade, che l’autore insinua nella composita compagine dei propri Taccuini, un corpus vastissimo da cui Serena Vitale ha estrapolato una densa silloge – Petr Andreevic Vjazemskij, Briciole della vita ( Adelphi, pp. 205, euro 14,00) in cui lo spirito dei tempi viene colto assemblando ricordi, schegge biografiche e profili in miniatura delle personalità più disparate dell’Ottocento russo.

Perle di crudeltà
Complice una traduzione come sempre scoppiettante, i brani ci restituiscono fotogrammi tutt’altro che trascurabili di un lungo arco temporale, che va dall’epoca di Caterina II a quella di Alessandro I, passando per le vicende napoleoniche e la rivolta decabrista, fino alla metà del secolo diciannovesimo. Girovagando nella sua memoria, Vjazemskij inanella figure di grandi eccentrici o proverbiali distratti, centellina «perle di crudeltà» e occasionali bonomie, immortala gentiluomini squisiti come il principe Daškov o anonimi proprietari terrieri singolarmente bislacchi; trascrive le battute irresistibili del conte Tolstoj (zio dell’autore di Guerra e pace) e registra le efferatezze gratuite di Paolo I, tanto lontane dall’ingegno magnanimo e assertivo di Caterina II. Su tutti, svetta un Puškin dall’arguzia incontenibile, irriverente perfino nei confronti di se stesso.

Facendo sfilare la sua galleria di intemerati seduttori, grandi anfitrioni, poetastri e «criticanti», invidiosi, logorroici, umili o ignominiosi protagonisti della scena sociale ottocentesca, Vjazemskij ostenta un’ammirazione smodata per la burla in tutte le sue forme, per la balla elevata ad arte («esistono bugiardi che sarebbe un crimine definire bugiardi: sono a loro modo poeti»), soprattutto laddove quel talento sia sorretto dal «coraggio delle proprie fandonie».

Lui stesso vi si affaccia a volte celato dietro le iniziali N.N., esito della negoziazione interiore con un bisogno di anonimato tutto sommato insolito per il suo tempo («Delle opere di K., N.N. dice: – Sono i suoi beni immobili: nelle librerie nessuno li prende mai dagli scaffali»).

L’inclusione nel territorio del narrabile di porzioni di vita incongrue o esilaranti, riprodotte con scambi di battute fulminanti («Qualcuno aveva detto: – I miei versi, spruzzati di sangue…. – Un caso di epistassi? – chiese Dmitriev»), incastonate in microaneddoti o dilatate in bozzetti della lunghezza di una pagina, si spingerà, negli anni Trenta del secolo scorso, alle surreali «assurdità» di Charms.

L’attacco di alcuni dei «casi» di Vjazemskij non differisce peraltro troppo da quello di alcune celebri prose del primo Ottocento: la promozione dell’aneddoto al rango di novella in virtù del suo abile impiego come motore narrativo aveva raggiunto i suoi vertici con Puškin, ed è con innegabile consapevolezza che l’autore accumula qui una congerie inesauribile di spunti, accatastando quanta più materia grezza possibile in racconti brevi mancati, romanzesche epitomi, calembour che lasciano immaginare ben più ampi sviluppi drammaturgici.

La scrittura è venata da una misoginia a tratti oltraggiosa, a tratti innocua («E*** sostiene che nella vita bisogna decidere: prendere moglie o comprare una carrozza. Se le hai entrambe, infatti, ti tocca restartene a casa tutto il giorno, senza moglie e senza carrozza»). Con rare eccezioni, quasi sempre confinate a certe «signore dell’altro secolo», perché una delle preoccupazioni in filigrana è la salvaguardia del retaggio del Settecento, fatto di ineguagliabili qualità personali e di una cultura politica più sofisticata: «Come ci siamo avviliti dai tempi di Caterina II… Perfino cortigianeria e piaggeria avevano allora qualcosa di cavalleresco». Allora il rimpianto per le «maniere d’antan» trascorre nella critica al «democratismo» di facciata, mossa da un intellettuale che considerava l’istituto della servitù della gleba un «ordinamento contronatura».

Ad essere messe alla berlina sono anche le magagne insanabili della società russa («Karamzin diceva che se avesse dovuto rispondere con una sola parola alla domanda: – Che si fa in Russia? – avrebbe risposto: – Si ruba»). Il debole per la delazione, ad esempio, o quello per il tavolo verde: «In nessun paese le carte hanno fatto proseliti come da noi: il gioco è un elemento immancabile e imprescindibile della vita russa» – «questo tipo di gioco, che assomiglia a una lotta per la vita o la morte, emoziona, è drammatico». Ma sempre nel culto del motto di spirito, del Witz mordace, e solo ogni tanto preoccupandosi di salvaguardare la verosimiglianza delle sue storie.

Non di rado traspare in controluce il desiderio di saldare vecchi conti (quando sbeffeggia le stucchevoli drammaturgie di uno Šachovskoj o le poetiche insipienze di un Chvostov, entrambi detrattori di Karamzin, oppure prende di mira l’opera giornalistica di Faddej Bulgarin, nemico di Puškin per eccellenza); ma anche l’urgenza di correggere il tiro rispetto alle propensioni dei tempi: da posizioni fattesi liberali, Vjazemskij disapprova ad esempio la deriva utilitaristica delle lettere russe al tempo di Belinskij («La letteratura non deve essere un’istituzione parallela al tribunale penale. La nostra letteratura, invece, ama castigare. Per chi ne ha voglia, è più facile fare l’assistente del boia che essere un artista di talento»).

Connessioni lampo
Il libro è corredato di un regesto dei nomi e di uno scritto di Serena Vitale, intitolato Vita di «Asmodeo», dal nomignolo affibbiato all’autore dai suoi sodali della società letteraria Arzamas – una congrega di «begli spiriti» capaci di irridere «la sussiegosa gravità delle accademie, dei rituali massonici, degli stessi cerimoniali di corte» – nata per contrastare l’altro cenacolo di Beseda, ovvero gli arcaisti raccolti intorno ad Aleksandr Šiškov. Più che una introduzione, è un testo letterario a sé, modulato a tratti mimeticamente sulle modalità di presentazione del suo autore (non nuovo peraltro al lettore italiano proprio grazie al Bottone di Puškin).

In assenza di un preciso disegno organizzativo dell’originale, la pubblicazione crea uno spazio letterario che si regge sul principio associativo: si passa da un personaggio all’altro per connessioni lampo, intrecci tematici o nessi mnestico-onirici, in un affresco per frammenti che trasceglie i frutti più sapidi di un ingegno versatile e altamente corrosivo, dotato di uno spirito critico ipertrofico, refrattario a ogni indulgenza e ben conscio dei propri limiti, che ha attraversato quasi interamente il suo secolo. Cuciti insieme per cluster, questi tasselli espandono la leggibilità della Russia del tempo di Vjazemskij e tingono di grottesco i tornanti della storia che si ripetono: colpisce l’attualità del rischio della «disperazione politica» che sempre incombe su un popolo dalla infinita capacità di sopportazione nei riguardi dei despoti.