Le Lacrime amare di Petra Von Kant era un melò «senza ipocrisia» – come diceva Fassbinder parlando dell’adorato Sirk e dei suoi melodrammi e delle ragioni per cui lo amava tanto. La Petra del titolo, stilista famosa e nobile (Margit Carstensen) chiusa nella sua casa piena di arte e bellezza, coi Poussin alle pareti e il corpo magrissimo e ingioiellato, ha accanto un’ assistente, Marlene, di cui non si sente mai la voce, interamente a lei dedicata, che sopporta ogni umiliazione forse perché innamorata, o perché soggiogata o forse perché necessario controcampo di un legame indefinibile, uno strano e fragilissimo equilibrio servo-padrone di cui è vietato mutare la sostanza.

UN GIORNO Petra, che con due matrimoni, di uno vedova e dell’altro divorziata detesta ormai i maschi, incontra Karin (Hanna Schygulla) e se ne innamora: la sua diventa un’ossessione, vuole possederla, controllarla, farne lo strumento del proprio narcisismo; la ragazza un po’ asseconda, molto sfugge, Petra ne diventa succube, è disposta a offrirsi alle ferite, alle offese, a ogni gesto di mortificazione pur di tenerla accanto a sé, fino a essere con Karin quasi come Marlene è con lei, ma Karin va via con un uomo lasciandola devastata, e instabile, in cerca di improbabili tenerezze e riscatti con la serva che per questo andrà via pure lei. È da qui che è partito François Ozon per il suo nuovo film, Peter Von Kant, che dell’originale fassbinderiano muta il genere trasformando appunto Petra in Peter, un regista di successo nella Germania degli anni Settanta, angustiato dai fantasmi, strafatto e spaventato dalla fragilità delle sue emozioni, assecondato in ogni suo capriccio dal silenzioso «servo» Karl, testimone muto delle sue ire e delle sue sofferenze, dei dolori e degli abbandoni, delle bugie e dei colpi di testa. La linea narrativa del testo «originale» si rivela però quasi subito un «pretesto» con cui Ozon prova a entrare nell’universo fassbinderiano, cercando di restituirne la storia nella relazione tra vita e cinema. Un gioco di specchi – anche spesso esibito nelle inquadrature del suo kammerspiele con foglie al vento – dove la figura del protagonista (è l’attore Denis Ménochet) si sovrappone abbastanza esplicitamente a quella del regista tedesco morto quarant’anni fa, di cui Ozon aveva già riletto 22 anni fa Gocce d’acqua su pietre roventi, e che spesso ha indicato come uno dei suoi riferimenti.

«PETER VON KANT» ha aperto ieri la Berlinale, un’edizione al 50% stranamente spoglia, anche la sera davanti al tappeto rosso, che soffre delle restrizioni imposte e molto probabilmente, come si era già visto a Cannes, della mancanza dell’Efa, il mercato del film, che invece è andato online anche quest’anno. Ozon lo ha definito «un film sulla passione, sul controllo nelle relazioni d’amore e creative che può esercitare un artista potente e affermato sulla sua musa». Qui un giovanissimo ragazzo arabo, Amir (Khalil Gharbia)che irrompe in un momento di crisi di Peter, stufo del suo lavoro, della madre «Mutti», di una figlia chiusa nei collegi svizzeri, dell’amica del cuore, ex amante, attrice che lo ha «tradito» scegliendo Hollywood – Isabelle Adjani: con Amir è colpo di fulmine al primo sguardo, champagne e ostriche, provino intenso di disgrazia famigliare nella sala di proiezione casalinga, e poi il ragazzo dice saltiamo i preliminari . Lui, Peter,è pazzo dei suoi capelli, della sua pelle, si macera quando lui gli parla delle sue scopate con neri dalle labbra (e non solo) grosse e impazzisce sempre di più mentre si scopre sottomesso a colui che voleva sottomettere. L’altro ride, con la sfacciataggine dei suoi pochi anni, di una fama che lo investe, di nuove avventure, non gli piace la parola umiltà (umiliazione) e nemmeno la pazienza, tutto e subito del resto come confida l’amica cara a Peter chi non ha fatto sesso con Amir?

E INTANTO tra le stanze di quell’appartamento e di un «amore più freddo della morte», nella Colonia che appare dal frame di un esterno in forma di teatro di posa, Peter Von Kant diventa sempre più Fassbinder, come in un caleidoscopio di biografia e di film ne indossa il corpo tumefatto dalla poca cura, il gilet di cuoio, ascolta Each men kills the thing he loves la voce roca di Jeanne Moreau – era Querelle, il suo ultimo film, presentato a Venezia quando lui era già morto. Amir sorride sensuale sulle copertine delle riviste lanciato da La paura mangia l’anima – il protagonista El Hedi Ben Salem era stato anche lui un amore del regista. E mentre Peter cerca di fare un film su una donna durante la guerra (Maria Braun?) all’improvviso arriva Mutti che è Hanna Schygulla. Eppure Ozon non «cede» al biopic, la sua biografia appunto passa per il cinema, che in Fassbinder però intreccia inevitabilmente il vissuto – lo stesso Petra Von Kant portava nella distanza della narrazione l’amore devastante tra Fassbinder e Gunther Kauffman. Ma possono bastare le citazioni e rendere il mondo di Fassbinder senza un punto di vista che sia un po’ più complesso di quello esibito da Ozon, una interpretazione sovraeccitata del melò? In cui di «creazione» mai si parla e forse nemmeno di amore se non per frasi fatti, un po’ fasulle ma non di quel falso splendente che scopre un mistero. «Each man kills the things he loves», e anche Ozon non sfugge.