«Be yourself and no-one else… then you’ll know the truth is in you and learn to make your own decision – Get up, you black Yankees, don’t be no follow fashion monkey». (Cerca di essere te stesso e nessun altro… in questo modo conoscerai la verità e quale decisione prendere. In piedi voi negri, non siate dei pecoroni). Un pezzo reggae del 1976, cantato da Bunny Wailer. Titolo del brano: Follow Fashion Monkey, una frase che in Giamaica sta ad indicare uno che segue la moda, uno senza idee e senza originalità. Il disco usciva su etichetta Island (la casa discografica che controlla la maggior parte del mercato discografico reggae) ed era stato voluto direttamente dal boss della Island, Christopher Blackwell: era il primo tentativo serio di fusione tra la disco-music e il reggae, e quindi significava l’apertura di un’altra fetta di mercato dentro l’industria della musica e del divertimento. Ma già l’ambiguità dell’operazione era evidente, la contraddizione tra il testo e la musica usata (la «disco» tende al ballo e all’intrattenimento puro – dicono). Già la gioia di cantare era sparita dalla voce di Bunny Wailer.
Anche se quel disco non andò molto bene, l’accoppiata disco-reggae si è rivelata alla fine vincente ed oggi circola tranquillamente in tutte le discoteche. Che significa questo fatto? Che la musica dei Caraibi ha perso tutta la sua forza eversiva? Che l’era dei grandi cantanti reggae di una volta (Dennis Borown, Jimmy Cliff, Gregory Isaacs, Freddy McKay, Beresford Hammond, Bob Marley ecc.) è completamente finita? Peter Tosh dice di no. Anche se i suoi ultimi due dischi (Bush Doctor e Mystic Man, entrambi registrati con l’etichetta dei Rolling Stones) sono stati accusati di fare troppe concessioni alla disco-music e al rock bianco tradizionale, Tosh continua a ripetere con grande sicurezza che la sua musica è fuori: «La mia musica viene direttamente dall’anima – ha detto l’altra sera alla conferenza stampa prima del concerto di Bologna – è una musica ispirata. Ispirata da Jah (dio), è la sua voce stessa, perché Jah vive in me e io vivo in lui. Per cui più si fa musica reggae più si parla di Jah. Mi sta bene che anche i gruppi bianchi facciano reggae. Ma soprattutto è importante che la gente ascolti e compri la mia musica. Per questo sono venuto in Italia. Certamente è una musica fatta per ballare e per dare gioia, ma comunica cose completamente diverse dalla… scusi, ma che cos’è la disco-music…? No, credimi, il reggae è un’altra cosa, sta cambiando la gente, non solo in Giamaica».
Eppure, a pensarci bene, le affinità tra disco e reggae sono tante: la forma musicale, ripetitiva e tutta basata su un ritmo che colpisce direttamente l’inconscio, fino a diventare ipnotico (magari con l’aiuto di un po’ d’erba); il fatto poi che sia soprattutto musica registrata su disco (appunto): la loro fortuna dipende il più delle volte dalla creatività dei disc-jockey, che hanno inventato addirittura dei formati-disco destinati specificamente alle discoteche, lavorando sulla durata e sul vinile. Da qui anche la difficoltà di fare buoni concerti dal vivo di musica «disco» o reggae. E invece Tosh è venuto a Bologna per dimostrare il contrario, soprattutto ai giornalisti. Lo ricorderà alla fine del concerto, prima del lunghissimo bis: «Adesso avete sentito la mia musica e ci avete visto in azione».
Ma torniamo indietro di una decina d’anni, al 1965, prima tappa della storia del reggae in Europa. Jimmy Cliff arriva a Londra: «Per me era una missione, anche se non ne ero cosciente. Bisognava aprire la strada, dare una base a questa cosa ora conosciuta come reggae. Compiuta la missione, sono tornato in Giamaica». Cliff lascia Londra, amareggiato, nel 1974. L’anno dopo arriva Bob Marley e fa una serie di concerti al Lyceum che gli aprono immediatamente la strada alla gloria e al mercato internazionale. La missione era riuscita, ma di Cliff (a parte il film quasi autobiografico, The Harder They Come) non si sentirà più parlare. È tornato a Londra due mesi fa, con un concerto grande all’Hammersmith Odeon (in gran parte ignorato dalla stampa) e nessuno si ricordava più delle sue canzoni del ’65 e di quello che aveva passato in quei primi mesi a Londra: Hard Road to Travel l’aveva scritta in una notte, dopo che il padrone di casa, razzista, gli aveva dato 24 ore di tempo per lasciare lo squat in cui abitava a Earls Court: Many Rivers to Cross racconta di una settimana passata a vagabondare in giro per Dover, senza un posto dove stare, mangiando solo «fish and chips»; più tardi fece un pezzo ancora più chiaro, Vietnam, che gli chiuse per sempre la possibilità di fare un tour negli Usa. Altri tempi.
Tosh nella conferenza stampa ha reso omaggio a tutti i musicisti perseguitati o ammazzati dallo «shi-stem» (sistema di merda), a tutti quelli che hanno lottato «dalla parte del popolo e di Jah» ed anche a tutte quelle forme di «musica di strada» (dal soul al punk) che in qualche modo si oppongono al «sistema».
Ma la sua è la musica che conta e che vince: di questo è profondamente convinto e continua a ripeterlo con estrema, dura, dolcezza. Non esiste una new wave del reggae (Inner Circle, Third World, Steel Pulse, ecc.), cioè non c’è nessuno più radicale e più bravo di lui.
Non esiste neppure Linton Kwesi Johnson, poeta giamaicano e cittadino inglese, ora coinvolto anche nel campo musicale sia perché ha inciso due dischi di reggae sia perché da mesi sta portando avanti una campagna di denuncia su come la Virgin sfrutta (proprio con il reggae comprato a due soldi) tutto il mercato africano.
Ma forse Tosh è quello che ha capito di più se è riuscito così bene a fare due album cattivi ma che non hanno per niente un suono cattivo. Anzi. (14 luglio 1979)