Ai margini di una città silenziosa, immobile, forse da tempo già evacuata, sorge un colossale condominio extra-lusso. Sottoterra, due uomini ne sorvegliano giorno e notte l’unico ingresso, in attesa che la minaccia, quale che sia, finalmente si palesi. Più o meno questa la cornice del destino che concerne Il guardiano, figura che dà il titolo al romanzo di Peter Terrin (Iperborea, traduzione di Claudia Cozzi, pp. 288, € 17,00).

Attraversata da un implacabile moto introspettivo, la storia ha contorni classici e, a distanza di anni dalla sua uscita in Belgio, oggi dialoga con un universo psichico mutato dalla pandemia. Il sostantivo nederlandese bewaker, come recita il titolo originale, condivide la radice con il verbo waken, vegliare, appunto. Uno stato di veglia è appunto la condizione ossessiva ma anche indispensabile a chiunque voglia dirsi un buon guardiano; nel romanzo dell’autore fiammingo si attende, infatti, tremebondi, una venuta, e come la tradizione vuole, questo arrivo non è detto sia gradito, sempre che si manifesti.

Le reazioni della lingua
Michel e Harry condividono una stanza minuscola in un seminterrato. Un letto a castello, un tavolo, una sedia, in quel che pare uno sgabuzzino riadattato a cella. Entro pochi metri quadrati, i gesti – consumare i pasti razionati, indossare e sfilarsi la divisa impeccabile, lucidare la pistola – seguono gli uni agli altri, esattamente calcolati. Le energie sono destinate a un unico obiettivo: proteggere gli inquilini e la loro spropositata ricchezza, sventare ogni possibile minaccia. Ma quale minaccia, e di quale consistenza? Terrin ha esplicitato più volte la sua ammirazione per Dino Buzzati, dal quale sembrerebbe avere, in effetti, mutuato alcuni espedienti.

Nonostante i nervi saldi dei due guardiani, nulla sembra scuotere la pace assoluta del seminterrato. Echi dal Deserto dei Tartari riaffiorano, con la differenza che la cornice dell’attesa ha qui poco dell’immaginifico. Il panorama su cui affaccia il posto di guardia è soltanto un parcheggio, un succedersi di posti auto, fasci di luce artificiale, deboli ronzii, nulla che oggettivamente si muova o accenni a farlo. C’è un solo schermo fisso su un’unica immagine, che agli occhi dei due personaggi genera non sfocati miraggi, ma allucinazioni.

«Osservo la sua bocca mentre si apre e chiude al ritmo delle parole, fin qui ha un senso. Più in là però non mi spingo, più in là mi sento smarrire nel sogno di qualcun altro. Eppure avverto la presenza fisica di tutto ciò che mi circonda. Mi trovo nel bel mezzo del flusso d’aria emesso dal corpo del signor De Bontridder. Di questo sono sicuro. Sento soprattutto odore di porro, ma anche di pesce. Salmone, mi pare.» La lingua nederlandese consente di rendere conto della sfera pratica, delle azioni più minuziose, conservando una notevole naturalezza.

In un suo romanzo titolato Monte Carlo, uscito nel 2016, sempre da Iperborea, Terrin dava vita al personaggio di Jack Preston, giovane meccanico inglese aggregato a un team di Formula 1 dopo anni di gavetta, e lo rendeva protagonista di un’ossessione. Sulla scena madre del libro, un incidente che si verifica alla partenza del Gran Premio di Monte Carlo del 1968. Solo un fugacissimo istante, descritto da diversi punti di vista, con una dovizia di particolari – sulle operazioni che Jack Preston sta compiendo nei pressi di una vettura, sui movimenti compiuti da chi lo osserva – davvero singolari. Quello stesso bagaglio tecnico e linguistico ha plausibilmente permesso a Terrin di mantenere alta la tensione nel corso dei numerosi, estenuanti capitoli in cui si divide Il guardiano, dove si descrivono le ronde, l’osservazione precisa, la concentrazione negli appostamenti. Michel scandisce i dialoghi con Harry, il suo alter ego febbrile, e Terrin capta ogni mutamento, ogni picco linguistico. Del guardiano descrive le rigidità muscolari, la tensione nervosa, la crescente insofferenza. Come reagisce una lingua come quella olandese alla descrizione minuta di una attività esclusivamente sensoriale? In traduzione gli effetti sono ancora più stranianti.

Dove sono gli inquilini?
Terrin allestisce un laboratorio dei sensi, e interviene su di essi per espanderli, forzarli, sezionarli, finché sembra arrivino a vivere di vita propria, e la mente dei protagonisti ormai vuota, ne è invasa. La condizione psichica dei personaggi cambia via via. Di Terrin si immagina lo sforzo di immedesimazione, nella sua delicata esplorazione di un pensiero ossessivo, che rimanda oggi alla claustrofobia e alle solitudini indotte dal lockdown.

È senz’altro un canovaccio distopico quello di cui l’autore si serve: questa apocalissi presunta nel Guardiano non prevede informazioni, piuttosto una obsolescenza della tecnologia, o una crisi energetica, forse in seguito a qualche guerra già in atto, o a un attacco batteriologico: comunque a un sopravvenuto silenzio. I due reclusi non hanno consapevolezza di cosa sia stato del mondo esterno, le comunicazioni si sono interrotte quando il condominio è stato abbandonato con composta sollecitudine dagli inquilini. Se non c’è più nessuno da proteggere, cosa resta da fare ai guardiani? Dove sono andati tutti? La veglia per la minaccia si tramuta in attesa del suo contrario, dell’avvento di un salvatore: sgradito, se arrivasse l’uomo interromperebbe la missione, svuoterebbe di senso la catastrofe.
Il secondo canovaccio insiste sulla storia, dalle sue retrovie. Un Messia venuto va trasformato in venturo, perché sia tale.

Se suonano alla porta, e sull’uscio c’è davvero il Messia, qualcosa è andato storto. Terrin ha dichiarato spesso il debito della sua formazione con Kafka e con Hermans, dai quali deve aver imparato a prendersi gioco dei personaggi, svuotando di senso la loro posizione, portando i messia sbagliati nelle loro case. Il destino di Jack Preston in Monte Carlo, perseguitato dalla figura epifanica di una diva monegasca, si ripete qui per i due guardiani; ma anziché abbandonarli a un comodo sistema di allegorie e interrogativi esistenziali, Terrin li precipita nel caos della mente, nella confusione di una crisi psichica. E tuttavia, il romanzo non si apre alla sorridente visione dell’assurdo: il riposo è negato ai guardiani, se non per pochi istanti.

Nella scalata finale dei due personaggi al condominio, prossimi a svicolare per il corridoio giusto, vicini a trovare la stanza, la scala, la finestra affacciata sul nulla, sull’incongruenza, spesso Terrin rasenta lo sbocco metafisico. Si resta, tuttavia, nella trappola della allucinazione, una tremenda, intricatissima variante della realtà. I passaggi si fanno più oscuri, faticosi, i sensi stanchi non hanno più presa sulle cose. Sottratte alla vista, le cose appaiono, anzi, quasi impazzite.

Certezze a posto
Come nel condomino dell’omonimo racconto di James Ballard, la suspense è alta mentre Michel, rimasto solo con se stesso, si sforza di cercare un appiglio. «Dal pavimento guardo la grande finestra come se fosse lo schermo di un cinema: uno spettacolo che non vedevo da molto tempo e che dopo una notte di tensione mi commuove fino alle lacrime: la prova confortante che almeno queste certezze – la Terra gira sul suo asse, il sole è ancora lì – non sono state intaccate».