Peter Marsh non è incline a semplificazioni giornalistiche, anche se è proprio lavorando al Financial Times che ha accumulato gran parte dei dati che usa nei suoi libri sulla società industriale. Il primo elemento che mette subito sul tappeto è la presa di distanza rispetto le tesi sull’avvento di una società postindustriale. L’industria continuerà a svolgere un ruolo fondamentale nella crescita economica, afferma nel recente Fabbricare il futuro (Codice edizioni, pp. 350, euro 27). L’acciaio, il petrolio, le automobili, gli elettrodomestici, il cemento, la plastica continueranno a rappresentare componenti fondamentali delle attività produttive, mentre il silicio, i microprocessori, il software sono funzionali alle innovazioni senza le quali l’attività economica ristagna. È, questo di Marsh, un rovesciamento di prospettiva rispetto a quanti invece vedono nell’high-tech la via maestra per garantire lo sviluppo del capitalismo. Il problema, però, non è se è dominante il «materiale» o l’«immateriale», quanto le piccole e grandi trasformazioni che hanno investito la produzione di valore. Chi lavora in una fabbrica di automobili o in una acciaieria, infatti, deve attivare attitudini, conoscenze che non hanno a che fare con una abilità manuale, bensì con una dimensione cognitiva difficile da standardizzare. Più o meno la stessa cosa che fa un colletto bianco nel suo lavoro.

Ortodossia evoluzionista

L’altro elemento, complementare al primo, è una visione evoluzionista dello sviluppo industriale e economico. Marsh fa infatti sua una prospettiva darwiniana. Non è certo la prima volta che Darwin viene usato in ambito di storia economica, ma colpisce la sicurezza di Marsh nell’usare il lessico dello scienziato per spiegare come il grande disordine degli ultimi venti anni sia niente altro che la manifestazione di quella selezione naturale che ha visto sopravvivere alcune imprese, perché capaci di adattarsi ai mutamenti dell’ambiente circostante, e la scomparsa di altri protagonisti della società industriale perché incapaci di innovare le loro imprese. Nessuna concessione è fatta dunque alla teoria degli «equilibri punteggiati» di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, secondo i quali, a lunghi periodi di stabilità, possono seguire brevi periodi di cambiamenti repentini nell’evoluzione delle specie. Una «revisione» della teoria dell’evoluzione che potrebbe essere usata proficuamente per spiegare cosa è accaduto nel regime di accumulazione capitalista.
È dunque chiaro che lo studioso britannico non è incline a prendere in considerazione le teorie sul postindustriale o sull’«informazionalismo» molto presenti in ambito anglosassone. Già questo sgombera il campo di chi recentemente ha associato il suo nome a quella nebulosa chiamata «Internet delle cose», quasi che fosse fulminato sulla via di Damasco, divenendo un seguace di chi vede nelle stampanti 3d o nell’artigianato virtuoso e ipertecnologico dei makers il futuro dell’umanità. Peter Marsh continua a pensare che sia l’impresa capitalistica il fondamento dello sviluppo economico. Non è tuttavia uno studioso insensibile alle tematiche ambientali, ma ritiene che saranno proprio le imprese che riusciranno a produrre acciaio, automobili, edifici inquinando di meno.
Insomma, Peter Marsh è uno studioso «tradizionale», a tratti «ortodosso». Tali giudizi, tuttavia, indurrebbero a un errore di sottovalutazione del volume. Fabbricare il futuro è infatti un saggio importante, non per il futuro che dovrebbe rivelare, ma per la panoramica di quei cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi decenni.

Eccellenze planetarie

In primo luogo, il declino degli Stati Uniti come unico centro propulsivo dello sviluppo capitalistico. Per quanto riguarda alcuni settori produttivi, le «eccellenze» vanno cercate oltre che negli Usa, anche in Giappone, Corea, Cina, Germania, Francia. Significative sono le pagine iniziali dove Marsh racconta la formazione del colosso dell’acciaio ArcelorMittal. Di aneddoti e sulla proliferazione di imprese leader non statunitensi è pieno il libro, sia che si parli di escavatrici, di automobili, di hardware per computer, di costruzioni. Ma se la mappa dei centri di potere economico è estremamente diversificata rispetto cinquanta anni fa, l’autore mette in evidenza un fenomeno che molta retorica sul libero mercato tende a rimuovere, anzi ad occultare. L’emersione di altre potenze economiche su scala globale è stata resa possibile da un processo di concentrazione e fusione: il capitalismo contemporaneo è caratterizzato dalla presenza di oligopoli che operano a livello globale. Anche in questo caso è forte l’eco di una visione darwiniana dell’attività economica, in base alla quale solo i più «forti» sopravvivono, con buona pace di chi auspica un capitalismo basato solo su piccole, seppur dinamiche e innovative imprese.
L’oligopolio tende comunque a istituire situazioni di monopolio, che viene ricercato attraverso un processo continuo di innovazione. È proprio sulla produzione di innovazione che il capitalismo contemporaneo presenta una «forma-impresa» che si differenzia rispetto al passato. Peter Marsh è attento a non semplificare le tendenze in atto, ma il quadro che emerge dal volume presenta significative ripetizioni e differenze. La ripetizione sta nella centralizzazione delle fasi di progettazione, ricerca e sviluppo. Ogni impresa che compete sul piano globale, oltre a mantenere le sue quote di mercato, ne deve «conquistare» altre attraverso prodotti personalizzati e di qualità. Il ricorso a pratiche di outsourcing delle fasi produttive standardizzate è propedeutico a contenere i costi di produzione, mentre il controllo della qualità di attua nelle definizione di rigidi standard da rispettare. È questo il caso delle cosiddette imprese design-only. Diverso è invece il caso delle factory-less (le fabbriche snelle), dove alcune fasi del processo lavorativo sono ancora interne, come avviene nella multinazionale high-tech Cisco, produttrice di computer per la connessione ad Internet e per la gestione di reti telematiche locali. L’innovazione, in questo caso, può contemplare anche rapporti di partnership tra committenti e fornitori, cosa invece non prevista nell’altra tipologia di impresa.
La saggistica ha più volte provato a fare i conti con le imprese a rete, i cluster e le silver companies, termini e espressioni che indicano le diverse tipologie di un’impresa che opera globalmente e che organizza e governa una rete produttiva disseminata su scala planetaria. Organizzazione e governo che fanno leva su una dimensione contrattuale dove, c’è da aggiungere, le norme sulla proprietà intellettuale svolgono il ruolo di definire il regime di subalternità alla «impresa madre» dei nodi produttivi coinvolti.

Oltre Henry Ford

Tutto ciò è finalizzato alla gestione del superamento della produzione di massa e a una personalizzazione, più o meno radicale, dei prodotti. Senza un briciolo di ironia, Marsh scrive che è finita l’era scandita dal motto di Henry Ford quando parlava della libertà dei consumatori nello scegliere il colore del modello T della sua fabbrica automobilistica: «possono scegliere il colore che vogliono, basta che sia il nero!». La nuova rivoluzione industriale in atto è dunque quella basata sull’innovazione, sul just in time, la personalizzazione dei prodotti e, va aggiunto, su un quadro geopolitico e economico che vede la fine dell’egemonia statunitense nel capitalismo, anche se ancora adesso le università statunitensi sono i centri nevralgici, dalla fisica alla chimica, alla biologia, della ricerca scientifica di base.
Non c’è dunque un futuro prossimo da raccontare, bensì un vischioso presente che può risultare come un magazine patinato se viene omessa la crisi che, da ormai otto anni, sta riconfigurando il capitalismo. Crisi che Peter Marsh non contempla nella sua appunto patinata lettura della società industriale.