L’entrata di Peter Handke sulla scena letteraria internazionale fu immediata e spettacolare. Aveva appena pubblicato il suo primo romanzo, I calabroni, che passò praticamente inosservato, quando grazie al suo editore, Siegfried Unseld, fu invitato al convegno del Gruppo 47, che quell’anno, il 1966, si svolse a Princeton.

Di fronte a quella potente istituzione letteraria della Germania occidentale, dove si raccoglievano tutti i maggiori scrittori, critici e editori, Handke restò per buona parte del tempo in disparte, ma il pomeriggio dell’ultimo giorno prese la parola e li accusò di sostenere una letteratura «terribilmente convenzionale», «sterile», «misera», caratterizzata da un’«impotenza descrittiva». Friedrich Christian Delius, giovanissimo anche lui e presente alla scena, lo avrebbe definito «il momento più folle della storia della letteratura tedesca dopo il 1945». Lo scandalo era stato programmato nei minimi dettagli. Il giorno dopo Handke finì sulle pagine di tutti i giornali tedeschi. Dopo qualche mese, il successo strepitoso di Insulti al pubblico lo avrebbe reso un autore di culto, la prima star pop della letteratura tedesca, un rappresentante della nuova generazione amante dei Beatles, dei flipper, dei concerti rock.

Ancora ventiquattrenne, Handke  si rivela già un abile stratega del marketing di sé stesso, un artista della provocazione, un maestro dello show, consapevole dei meccanismi della «società dello spettacolo», che sfrutta con astuzia dialettica, per renderli manifesti e sovvertirli. Si elegge dunque a portavoce di una nuova concezione letteraria, che assorbe la critica del linguaggio di tradizione austriaca insieme alle teorie formaliste e strutturaliste di provenienza francese. Al tempo stesso si dichiara  marxista e «abitante della torre d’avorio», e intendendo salvare l’impegno contesta chi pretenderebbe  di praticarlo attraverso la letteratura, perché  ogni contenuto politico, sostiene, trasferito nella finzione diventa «irreale». La dimensione politica della scrittura non riguarda i suoi temi, ma il linguaggio di cui essa si serve, poiché solo lavorando sul linguaggio, in quanto mediatore del nostro rapporto con gli altri e con il mondo,  si può incidere sulla realtà, ed è perciò che le questioni formali sono questioni morali: questa la convinzione che, da sempre, sta al cuore della sua poetica. Lo dimostra la raccolta di scritti recentemente edita da Meltemi con il titolo Appetito per il mondo (a cura di Davide Di Maio e Gabriella Pelloni, pp. 264 20.00), articoli e brevi saggi scritti tra il 1966 e il 2003, sempre a stretto contatto con l’attualità: un contatto prima diretto e polemico, poi sempre più asciutto, distaccato, poetico. Dagli anni Settanta l’argomentazione abbandona l’analisi e si fa narrativa: Handke prende posizione attraverso l’accuratezza delle sue descrizioni, il ritmo delle sue frasi, le sinuosità del suo stile, nel desiderio di mostrare come ciò che definiamo realtà sia solo il frutto della rappresentazione dominante, e  come possibilità ancora ignote di fare esperienza del mondo vadano dunque esplorate. Delle opere di Kafka, di Grillparzer, di Stifter, di Marguerite Duras o di Patricia Highsmith, che indica come propri modelli, gli interessa il riserbo che mostrano verso ogni forma di giudizio, di opinione, di spiegazione che non si riveli attraverso il ritmo e la struttura delle frasi. Trova che l’assenza di commenti renda i loro testi inclusivi, capaci di lasciare aperti  spazi  in cui i lettori possano insediarsi con le loro riflessioni, le loro fantasie.

Altri scritti di questa silloge fanno emergere la dimensione topografica, geologica che segna la scrittura di Handke almeno a partire da Lento ritorno a casa,  la predilezione per luoghi periferici, anonimi, in cui non c’è «nulla da vedere», perché tutto sta nel saperli osservare «come si deve». Anche quando scava nella desolazione di quartieri come il Märkisches Viertel di Berlino, dove in una sorta di spietata autoetnografia, vede manifestarsi tutta la desolazione dell’esistenza nel «mondo tecnocratico», la poesia sta ­– per lui – nello sguardo. Altre periferie, come il demos di Colono nell’Atene di oggi, gli rivelano frammenti dispersi e quasi irriconoscibili di una regione arcaica che è ancora la stessa di quella cantata più di duemila anni fa.

Contro il nostro tempo, Handke difende quella la terra che si tende a ignorare quando non a distruggere. Tre celebri film di Kiarostami lo inducono a seguire affascinato una macchina da presa che gli appare «per così dire geografica», ovvero capace di portare a galla la zona collinosa del nord della Persia vicino alla Turchia, che «colpisce lo spettatore alla stregua di una particolar forma terrestre», abitata da una «specie di popolo» piena «di noblesse, di bontà e dignità», tale da accendere il desiderio utopico di un’altra umanità. La scrittura di Handke insegue un tempo «preistorico» che accompagna il tempo storico e lo elude: spetta all’arte recuperarlo ai nostri occhi per ridare anima al mondo e ai nostri sensi. A interessarlo è  quel sottosuolo di oggetti – «avanzi, scheletri, scorie, frutta secca» – che ritrovano un «loro posto» nei quadri di Anselm Kiefer: scarti lasciati dalla vita, e attraverso l’arte riacquisiti alla vita come residui che mettono in questione le nostre immagini del mondo, perché rimandano a ciò che viene cancellato in nome di una qualche coerenza. Nello sguardo di Handke, Kiefer riafferma la «necessità indecifrabile e misteriosa» della pittura, trasformando l’immagine in «azione contro il mondo delle immagini di oggi». Anche da appassionato spettatore cinematografico Handke è interessato alla potenzialità iconoclasta dell’immagine, che vede espressa nei film Quentin Tarantino o di Atom Egoyan, capaci di lacerare il «sipario delle immagini», per andare «verso il prossimo», verso che coloro che ci vengono rappresentati come stranieri, nemici. Medium capace di liberarci dalle immagini che cancellano e distorcono, producendo un «risveglio fiabesco» dei sensi, una voglia nuova di vivere, un nuovo «appetito per il mondo», il cinema è per Handke un  «cibo per l’anima».