Visioni

Peter Greenaway, «il cinema non deve ridursi a illustrare parole»

Peter Greenaway, «il cinema non deve ridursi a illustrare parole»«The Greenaway Alphabet», regia Saskia Boddeke; nella foto Peter Greenaway e la figlia Pip

Cinema Incontro con il regista, scrittore, pittore britannico, al centro di un omaggio alla Mole di Torino. Il nuovo film «Lucca Mortis» con Dustin Hoffman, la relazione con la letteratura, la ripetitività del contemporaneo

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 24 settembre 2024

Se Peter Greenaway ha fatto della catalogazione, dell’inventario, della classificazione uno degli elementi della sua carriera cinematografica e artistica, l’omaggio che il Museo Nazionale del Cinema di Torino gli sta rendendo in questa settimana si pone come sintesi della magnifica ossessione del regista britannico che il 5 aprile ha compiuto 82 anni.

NELL’ARCO DI DUE giornate – ieri e oggi – gli appuntamenti a lui dedicati sono tanti e coprono vari aspetti della sua attività. Così, accanto alle proiezioni dei film L’alfabeto di Peter Greenaway (2017) – ritratto intimo e familiare realizzato dalla moglie Saskia Boddeke, che vede dialogare il cineasta e pittore con la figlia adolescente Pip – e The Missing Nail, corto di dieci minuti nel quale Greenaway esplora e manipola l’Ultima Cena di Leonardo, ecco due eventi in grado di ampliare l’orizzonte della conoscenza dell’autore de I misteri del giardino di Compton House – che nel 1982 lo ha reso famoso a livello internazionale. Si tratta di un libro, 100 disegni della Mole (a cura di Domenico De Gaetano, presentato in anteprima mondiale ieri sera al cinema Massimo), ovvero altrettante «vedute» della Mole Antonelliana, nate dall’immaginazione di Greenaway che con quell’edificio ha instaurato un rapporto particolare nel corso degli anni, e della lettura di una selezione di racconti brevi e brevissimi, inediti, intitolati He Read Deep Into the Night, che il regista terrà oggi dopo la consegna del premio Stella della Mole e che comprenderà anche un’esibizione dal vivo con la figlia Pip.

Nell’incontro stampa Greenaway ha spaziato tra presente e passato, il nuovo film in lavorazione – Lucca Mortis – e la relazione con la letteratura, quello che per lui (non) è il cinema odierno, la morte e il sesso. I suoi racconti ci sono parsi un contrappunto al suo cinema: da una parte uno stile essenziale, una scrittura fatta di frasi concise, incisive, come aforismi a volte, dall’altra uno sguardo filmico barocco, che contempla strati su strati. «Ci sono molti modi per rispondere a questa domanda – dice – Ritengo che il cinema sia l’illustrazione di opere della letteratura, ciò avviene da sempre, e questo è triste perché dovrebbe avere una sua autonomia ed essere più originale. I miei primi film avevano un budget molto limitato. Già il mio primo film, The Falls, era composto di una serie di situazioni drammaturgicamente rappresentate per frammenti, una specie di collezione di racconti brevi che mi portava a sviluppare un cinema più autoriflessivo giocando sul linguaggio. Esattamente quello che ho fatto con i racconti che si basano sui giochi di parole che sono un mio grande amore, esplorare i significati diversi di una singola parola. Senza dimenticare che oggi, tristemente, la durata dell’attenzione è ridotta: chi legge ancora Henry James? La scrittura deve fare i conti con questo aspetto».

Per decenni abbiamo parlato di sesso, adesso è tempo di portare in primo piano la morte, compresa l’eutanasiaPeter Greenaway
E mentre si avventura nei meandri delle parole non destinate allo schermo, Greenaway è nel pieno di Lucca Mortis. Ne parla molto, e parla molto della morte in varie circostanze: «Per decenni abbiamo parlato di sesso in tutti i modi possibili, adesso è tempo di portare in primo piano la morte, compresa l’eutanasia, il suicidio assistito, sono lemmi entrati nei discorsi professionali e comuni, è un argomento doloroso e Lucca Mortis darà un suo piccolo contributo, anche se non sarà solo su questo».

SET, LUCCA. Un anziano giornalista americano (Dustin Hoffman) torna nella sua città natia con la moglie, la figlia e il fidanzato della figlia. «Il titolo rievoca il rigor mortis – spiega Greenaway – I greci avevano due riferimenti, l’inizio, Eros, e la fine, Thanatos. Io mi soffermo sulla vecchiaia, sulla fine della vita e sulla domanda che tutti si fanno: che cos’è la morte? Ma il film si spinge anche oltre. Sono ateo, però mi affascina il cattolicesimo, la Bibbia, la storia di Cristo, cosa significhi la resurrezione. Il tutto in un film che nasce da un’installazione, dalla proiezione d’immagini sul convento francescano di Lucca».
Autore di tante opere che si basano su biografie di artisti celebri (Rembrandt, Goltzius, Brâncusi…), ma sempre re-interpretate (delle «semi-autobiografie», le definisce), Greenaway ha anche inventato una biografia fittizia, quella di Tulse Luper, personaggio che inizia a comparire nel suo cinema negli anni Settanta. «Per quanto sia un personaggio di finzione, c’è molto di me, e quello che ho scelto di fare è stato lasciare allo spettatore decidere cosa o chi sia o non sia Tulse Luper».

Al cinema di adesso crede poco, lo trova per la maggior parte noioso: «Sono anziano, ho visto talmente tante volte le stesse cose, produzioni deliberatamente ripetitive perché portano denaro. Vorrei invece che i registi continuassero a re-inventare. Gli autori che amo appartengono al passato, pur con percorsi diversi rispetto al mio, penso alla Nouvelle Vague o a italiani come i Taviani, Fellini, Antonioni. Il periodo migliore del cinema italiano per me comincia con La dolce vita e finisce con L’ultimo imperatore. Ritengo Alain Resnais un genio e L’anno scorso a Marienbad la «crème de la crème», e poi sceneggiato da uno scrittore come Alain Robbe-Grillet. Adoro le contraddizioni».

DELL’INTELLIGENZA artificiale «come creatore di immagini sono curioso anche se non la comprendo e mi chiedo come potrà influire sulla mia arte». C’è però una cosa di cui Greenaway è convinto: «Sto tornando a essere uno scrittore. Mano a mano che invecchio si riduce il numero di produttori interessati a investire nei film che faccio, quindi ritorno al le mie radici. D’altronde, tranne L’ultima tempesta, ho scritto tutti i miei film. Ma ho sempre rispettato il portato visivo del cinema, che non deve mai essere sminuito. Troppe volte accade che il cinema si riduce solo a illustrare parole».

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