Per la XIV edizione del suo festival, «Archivio Aperto», Home Movies – www.homemovies.it – ha deciso di rendere omaggio al regista e artista ungherese Péter Forgacs, un maestro del cinema d’archivio (quello che altrove, in ambito internazionale, viene chiamato found footage film).

Il titolo della retrospettiva è Hidden Histoires. The Found Footage Films of Péter Forgács. È già possible vedere molti dei film dell’iniziativa in rete, gratuitamente, sulla piattaforma mymovies.it, fino al 27 ottobre. Fra questi, si può segnalare la presenza di alcuni lavori della serie Private Hungary, iniziata nel 1988, e dedicata – come il titolo suggerisce – agli aspetti «non istituzionalizzati» della storia del paese magiaro. Ci sono poi film, diciamo così, più «europei», legati a quanto successe negli anni Trenta e Quaranta. In merito, si possono citare El Perro Negro sulla guerra civile in Spagna (2005), e The Maelstrom – A Family Chronic (1997) oppure Angelos’ Film (1999) sulla violenza nazista della Seconda guerra mondiale.

Ma non mancano nemmeno opere di taglio un poco diverso come, per esempio, Hunky Blues (2009), che racconta l’emigrazione ungherese negli Stati Uniti e lo fa, anche, attraverso testimonianze orali.

La retrospettiva, comunque, non è solo online, dal momento che consta di due appuntamenti alla presenza del regista. L’11 ottobre, alle 21, all’Auditorium DAMSLab di Bologna, saranno proiettati gli ultimi due film della serie Private Hungary, ovvero Kemény György (2017) e Venom – A Diva in Exile (2018). Il giorno seguente, alle 15.30, presso l’Istituto Parri, Forgács stesso condurrà un workshop, fruibile anche online.
Ora, ridurre il senso del cinema di Forgács in poche battute è una operazione destinata a fallire. Si possono però provare a mettere in evidenza un paio di questioni, sperando che funzionino come introduzione al suo modo di vedere.

A proposito della sua formazione il regista e artista ungherese ha spesso raccontato di come questa sia stata variegata e abbia avuto nella sua frequentazione del Béla Balázs Studio (BBS) un momento di sviluppo espressivo importante. Nello specifico, Forgács ricorda proprio un film di quello studio – Private History (Gábor Bódy, 1978) – fra le esperienze più influenti che lo hanno in qualche modo spinto a lavorare con i film di famiglia e amatoriali.

Volgendo l’attenzione alla sua produzione nella sua totalità, si potrebbe dire che la lezione del BBS sopravvive, nel senso che si percepisce sempre una certa cura estetica del linguaggio nel suo cinema, il quale – fin dagli inizi – si è comunque reso leggibile come un discorso sulla storia, declinabile di volta in volta su macro-soggetti diversi (l’Ungheria, l’Europa), e che per certi versi può ricordare l’idea di «storia dal basso» teorizzata dallo storico inglese E. P. Thompson.

Fra la selezione disponibile online, un film come The Maelstrom forse esprime in maniera più icastica degli altri questa somiglianza, dal momento che presenta una sorta di cronaca familiare di una famiglia di ebrei olandesi, i Peereboom, dal 1933 al 1942, in parallelo con altre riprese private, quelle di Arthur Seyss-Inquart, commissario nazista per i territori occupati olandesi. A tutto questo Forgács aggiunge le informazioni necessarie che servono per avere un quadro completo di quanto si vede.
Non ci sono immagini per così dire «forti», ma il risultato è, alla fine, qualcosa di perturbante.

Una seconda questione interessante sulla produzione del regista ungherese può senz’altro essere quella relativa al suo uso dei materiali d’archivio. Al riguardo, risposte possibili si possono trovare in alcuni studi sul suo lavoro come, per esempio, il volume Cinema’s Alchemist, a cura di Bill Nichols e Michael Renov. È una pubblicazione di qualche anno fa, ma vale senza alcun dubbio per molte riflessioni proposte. Tuttavia, presenta un titolo che potrebbe sviare il lettore o la lettrice da una seria comprensione della poetica di Forgács, dal momento che utilizzare la metafora dell’alchimia come sintesi del suo modo di vedere potrebbe risultare qualcosa di riduttivo, se non equivoco. Un approccio meno altisonante ma magari più utile potrebbe invece essere quello di provare a collocare l’autore nell’ambito del campo del found footage.

In questo modo, forse, risulta chiara la sua specificità. Da un lato, infatti, non sembra riconducibile ad una certa tendenza per così dire puramente avanguardistico-formale, esemplificabile con lo sguardo di un Bruce Conner; dall’altro, non è nemmeno qualcosa di associabile alla ricerca analitica dentro il fotogramma che caratterizza le pellicole di Gianikian e Ricci Lucchi. L’impressione è che, in un certo senso, i film del magiaro esplicitino una visione in mezzo a questi due estremi. In fondo, qualcosa che idealmente renderebbe il suo lavoro un classico del cinema d’archivio.