Anche questa volta abbiamo il pezzo forte. Bergamo Jazz 2013 incorona Peter Evans, trombettista americano. Quasi una scoperta, nonostante sia attivo a apprezzato da circa dieci anni. Un prodigio, non c’è dubbio. Sta in quell’area che di solito si definisce avanguardia, sperimentale, parole così. In trio all’Auditorium, sessione pomeridiana del festival, quella «per palati fini». I partner sono grandiosi quanto lui: John Ebert al contrabbasso e Kassa Overall alla batteria. Mette insieme iterazioni di poche note e veloci fraseggi di alto virtuosismo che denotano una conoscenza dell’hard bop. Ma il discorso di Evans va oltre tutti i modelli identificabili. C’è all’inizio un po’ della fanfara free di un Donald Ayler. Solo perché il primo brano è costruito su spunti tematici-non tematici tipo annuncio, proclama, chiamata alla lotta (se vogliamo). Sonorità contenuta, quasi da concertista barocco, che diventa squillante quando occorre scompaginare i codici di ascolto. Un gusto del melodizzare irregolare, tra sequenze di «legato» molto limpido e serie di note puntate. Tutto puntigliosamente anti-lirico. Gran vivacità e anche aggressività dell’eloquio. Però le asprezze e le alterazioni del registro dello strumento (strozzature, soffi) appaiono negli episodi di dialogo serrato con i partner, quando le «prime parti» sono affidate a loro.
Uno di questi episodi è da sballo. Una meraviglia che raramente succede di incontrare. Il batterista Overall picchia sul rullante prima colpi secchi e radi, poi, a intervalli misurati, figure più ricche, c’è il ritmo jazz e c’è la negazione del ritmo jazz come di solito viene prodotto, e Evans un po’ «melodizza» questi battiti, questi duri colpi al cuore, inventando frasi che vanno in unisono oppure rincorrono quelle della batteria, frasi così originali che sembrano mai sentite. Ed è chiaro che ascoltiamo un grande improvvisatore compositore, tre grandi improvvisatori compositori, è chiaro che la potenza dell’estemporaneità si fonde con quella della costruzione e del progetto.

Mary Halvorson
Poi ci sarebbe di buonissimo, all’Auditorium, Mary Halvorson a capo di un quintetto. Anzi, c’è. Dato che si tratta di un set di tutto rispetto, da valutare con grande interesse. Ma la trentatreenne chitarrista nota da noi soprattutto come fedele discepola di Anthony Braxton non coltiva ancora abbastanza intensamente il suo desiderio di essere leader e compositrice. Con ottimi partner come Jon Irabagon al sax e Jonathan Finlayson alla tromba e due superlativi come Ches Smith alla batteria e John Ebert al contrabbasso, mostra il lato non aguzzo di sé e propone all’inizio temi quasi danzanti che l’ensemble elabora in maniera piuttosto timida. Lei è un po’ un contrabbasso aggiunto e adotta lo stile di quello strumento anche quando improvvisa in assolo, più «veramente jazzistica» di ogni altra occasione precedente, estranea pur sempre alla logica della tonalità. Ma la performance è in progressione. Gli ultimi due brani mostrano l’adesione convinta di Halvorson e del suo gruppo all’idea di radicalità, senza espedienti e infingimenti, il trombettista Finlayson dà il meglio di sé con linee melodiche che aderiscono a un’aritmia di base. Il club Halvorson è aperto e suscita grandi attese.
Non che tutto ciò che è programmato per il pomeriggio sia mirabile. Alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, il celebre chitarrista Marc Ribot riesce più che altro ad annoiare. Bravissimo col suo vecchio strumento acustico, specializzato nel patchwork o miscellanea che dir si voglia. Ma il suo tragitto da echi di Paris Texas alla grazia swing dell’Hot Club de France al country solo un po’ intellettualizzato risulta stucchevole. Molti svolazzi e decorazioni. E uno si chiede: perché? Ci si chiede perché anche incrociando il quintetto di Giovanni Guidi, l’astro non più nascente del jazz italiano, protagonista in una delle tre serate al Teatro Donizetti, dove si presentano le star e le musiche ritenute più popolari e di successo (e in effetti c’è sempre il tutto esaurito). Un perché di altro genere. Perché un simile talento del solismo pianistico si debba buttar via in una performance da leader (ruolo a cui tiene moltissimo) che si esaurisce in una desolata recita di scolari. Eppure ha con sé due assi come Thomas Morgan al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria. Li fa suonare in assolo il più possibile, soprattutto il primo col suo bel suono profondo e caldo e le sue belle frasi solenni. Al sax c’è Dan Kinzelman, alla tromba Shane Endsley, tutti e due in assolo non si notano, non hanno niente da dire. Guidi in rari interventi ha da dire parecchio, invece, con piglio free, ma si impegna di più a farci ascoltare temini esili esili, romantici ma insapori, eseguiti dal gruppo all’unisono con diligenza svogliata.

Gregory Porter
Va forte a modo suo al Donizetti un cantante che da un paio d’anni è diventato celebre. Gregory Porter ha voce potente e amabile, dentro ha il blues e tutta la black music ma ancora di più il fascino discreto di Nat King Cole. Il mix è gustabile senza arrivare a dire che è avvincente. Accompagnano Porter quattro jazzisti un po’ scombinati, tra i quali l’altosassofonista Yosuke Satoh, che sa di Charlie Parker e gigioneggia con volute di suoni accattivanti. Un settetto di All Stars italiane di varie generazioni ha l’onore di aprire il «festival della sera» a teatro. Dino Piana, trombonista, 83 anni, è di gran lunga il migliore del gruppo: ha una sonorità magnifica e un fraseggio anni ’50 «alla West Coast» del tutto personale, molto pensato e interessante.
Tacere sul set penoso del «pittoresco» gruppo latin (e un po’ jazz) di Hermeto Pascoal? Meglio. Per fortuna la serata finale è splendida. Con il John Scofield’s Organic Trio che dispensa lo scorrevole fascinoso discorso, tra jazz «moderno», blues e funky, del chitarrista leader e di Larry Goldings, sapientone dell’organo Hammond. Ma soprattutto col duo inedito Uri Caine-Han Bennink. Il pianista americano è sollecitato dal batterista «totale» olandese, pirotecnico, barricadiero, swingante, dadaista (e musicalmente immenso). Caine è walleriano come sempre ma più felice e leggero di sempre. Fa fatica a tener dietro alle funamboliche invenzioni sonore e teatrali di Bennink, ma le sue scorribande tra citazioni e variazioni di motivi celebri sono di qualità. Festa grande.
Mario Gamba
BERGAMO
Anche questa volta abbiamo il pezzo forte. Bergamo Jazz 2013 incorona Peter Evans, trombettista americano. Quasi una scoperta, nonostante sia attivo a apprezzato da circa dieci anni. Un prodigio, non c’è dubbio. Sta in quell’area che di solito si definisce avanguardia, sperimentale, parole così. In trio all’Auditorium, sessione pomeridiana del festival, quella «per palati fini». I partner sono grandiosi quanto lui: John Ebert al contrabbasso e Kassa Overall alla batteria. Mette insieme iterazioni di poche note e veloci fraseggi di alto virtuosismo che denotano una conoscenza dell’hard bop. Ma il discorso di Evans va oltre tutti i modelli identificabili. C’è all’inizio un po’ della fanfara free di un Donald Ayler. Solo perché il primo brano è costruito su spunti tematici-non tematici tipo annuncio, proclama, chiamata alla lotta (se vogliamo). Sonorità contenuta, quasi da concertista barocco, che diventa squillante quando occorre scompaginare i codici di ascolto. Un gusto del melodizzare irregolare, tra sequenze di «legato» molto limpido e serie di note puntate. Tutto puntigliosamente anti-lirico. Gran vivacità e anche aggressività dell’eloquio. Però le asprezze e le alterazioni del registro dello strumento (strozzature, soffi) appaiono negli episodi di dialogo serrato con i partner, quando le «prime parti» sono affidate a loro.
Uno di questi episodi è da sballo. Una meraviglia che raramente succede di incontrare. Il batterista Overall picchia sul rullante prima colpi secchi e radi, poi, a intervalli misurati, figure più ricche, c’è il ritmo jazz e c’è la negazione del ritmo jazz come di solito viene prodotto, e Evans un po’ «melodizza» questi battiti, questi duri colpi al cuore, inventando frasi che vanno in unisono oppure rincorrono quelle della batteria, frasi così originali che sembrano mai sentite. Ed è chiaro che ascoltiamo un grande improvvisatore compositore, tre grandi improvvisatori compositori, è chiaro che la potenza dell’estemporaneità si fonde con quella della costruzione e del progetto.
Poi ci sarebbe di buonissimo, all’Auditorium, Mary Halvorson a capo di un quintetto. Anzi, c’è. Dato che si tratta di un set di tutto rispetto, da valutare con grande interesse. Ma la trentatreenne chitarrista nota da noi soprattutto come fedele discepola di Anthony Braxton non coltiva ancora abbastanza intensamente il suo desiderio di essere leader e compositrice. Con ottimi partner come Jon Irabagon al sax e Jonathan Finlayson alla tromba e due superlativi come Ches Smith alla batteria e John Ebert al contrabbasso, mostra il lato non aguzzo di sé e propone all’inizio temi quasi danzanti che l’ensemble elabora in maniera piuttosto timida. Lei è un po’ un contrabbasso aggiunto e adotta lo stile di quello strumento anche quando improvvisa in assolo, più «veramente jazzistica» di ogni altra occasione precedente, estranea pur sempre alla logica della tonalità. Ma la performance è in progressione. Gli ultimi due brani mostrano l’adesione convinta di Halvorson e del suo gruppo all’idea di radicalità, senza espedienti e infingimenti, il trombettista Finlayson dà il meglio di sé con linee melodiche che aderiscono a un’aritmia di base. Il club Halvorson è aperto e suscita grandi attese.
Non che tutto ciò che è programmato per il pomeriggio sia mirabile. Alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, il celebre chitarrista Marc Ribot riesce più che altro ad annoiare. Bravissimo col suo vecchio strumento acustico, specializzato nel patchwork o miscellanea che dir si voglia. Ma il suo tragitto da echi di Paris Texas alla grazia swing dell’Hot Club de France al country solo un po’ intellettualizzato risulta stucchevole. Molti svolazzi e decorazioni. E uno si chiede: perché? Ci si chiede perché anche incrociando il quintetto di Giovanni Guidi, l’astro non più nascente del jazz italiano, protagonista in una delle tre serate al Teatro Donizetti, dove si presentano le star e le musiche ritenute più popolari e di successo (e in effetti c’è sempre il tutto esaurito). Un perché di altro genere. Perché un simile talento del solismo pianistico si debba buttar via in una performance da leader (ruolo a cui tiene moltissimo) che si esaurisce in una desolata recita di scolari. Eppure ha con sé due assi come Thomas Morgan al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria. Li fa suonare in assolo il più possibile, soprattutto il primo col suo bel suono profondo e caldo e le sue belle frasi solenni. Al sax c’è Dan Kinzelman, alla tromba Shane Endsley, tutti e due in assolo non si notano, non hanno niente da dire. Guidi in rari interventi ha da dire parecchio, invece, con piglio free, ma si impegna di più a farci ascoltare temini esili esili, romantici ma insapori, eseguiti dal gruppo all’unisono con diligenza svogliata.
Va forte a modo suo al Donizetti un cantante che da un paio d’anni è diventato celebre. Gregory Porter ha voce potente e amabile, dentro ha il blues e tutta la black music ma ancora di più il fascino discreto di Nat King Cole. Il mix è gustabile senza arrivare a dire che è avvincente. Accompagnano Porter quattro jazzisti un po’ scombinati, tra i quali l’altosassofonista Yosuke Satoh, che sa di Charlie Parker e gigioneggia con volute di suoni accattivanti. Un settetto di All Stars italiane di varie generazioni ha l’onore di aprire il «festival della sera» a teatro. Dino Piana, trombonista, 83 anni, è di gran lunga il migliore del gruppo: ha una sonorità magnifica e un fraseggio anni ’50 «alla West Coast» del tutto personale, molto pensato e interessante.
Tacere sul set penoso del «pittoresco» gruppo latin (e un po’ jazz) di Hermeto Pascoal? Meglio. Per fortuna la serata finale è splendida. Con il John Scofield’s Organic Trio che dispensa lo scorrevole fascinoso discorso, tra jazz «moderno», blues e funky, del chitarrista leader e di Larry Goldings, sapientone dell’organo Hammond. Ma soprattutto col duo inedito Uri Caine-Han Bennink. Il pianista americano è sollecitato dal batterista «totale» olandese, pirotecnico, barricadiero, swingante, dadaista (e musicalmente immenso). Caine è walleriano come sempre ma più felice e leggero di sempre. Fa fatica a tener dietro alle funamboliche invenzioni sonore e teatrali di Bennink, ma le sue scorribande tra citazioni e variazioni di motivi celebri sono di qualità. Festa grande.