I Qualche anno fa, a Milano, durante la conversazione con Luca Guadagnino che lo aveva scelto – insieme a Rossellini – per la sua Carte Blanche nell’edizione 2018 di Filmmaker festival, Peter Del Monte era apparso sinceramente stupito da questo invito. Quasi fosse impossibile che un regista più giovane, e di successo internazionale come Guadagnino avesse pensato a lui indicandolo tra le figure fondamentali per la sua formazione. Eppure nonostante le differenze visive e di poetica sono più vicini di quanto si pensi, perché Del Monte è una figura fuoriclasse nel cinema italiano – allo stesso modo di Guadagnino – non riconducibile a nessuna tendenza, schema, «genere», e ognuno dei suoi film, pur vivendo intensamente nell’epoca e nei luoghi in cui è stato realizzato, sa coglierne il sentimento universale grazie all’eccentricità rispetto a essi.

NON È UN CINEMA che insegue il mondo quello di Del Monte, ne scopre invece le variazioni tra i contorni del fantastico, si muove lungo i passi delle emozione, anche quelle più segreti, e sempre amorevolmente accanto ai suoi personaggi. Gentile, discreto, in punta di piedi come il suo autore. «Amo il cinema che non imita. I miei film affrontano modelli conflittuali non per toglierli di mezzo, ma per farci i conti in modo non riduttivo, come invece si è fatto con la commedia all’italiana. Film archetipo di questo genere è Il sorpasso nel quale non mi riconosco perché non critica i difetti italiani, ma li contiene. Mi ritengo più figlio della Nouvelle Vague che della commedia all’italiana» diceva in quell’incontro. Forse perché aveva studiato al Centro sperimentale con Rossellini, o perché era nato in America, a San Francisco (il 29 luglio, 1943), bambino in un altrove di paesaggi fisici e mentali, suggestioni, colori. E il trauma della cesura al di qua dell’oceano se lo era portato dietro in ciò che chiamava «uno sguardo più distaccato».


Sapeva raccontare Del Monte e sempre a partire dalle immagini, non affidandosi solo allo script; le sue storie (peraltro scritte con precisione) sono materia viva, invenzione, incanto che lascia allo spettatore uno spazio in cui avventurarsi seguendo le personali fantasie. Sia quando lo mette davanti a una fiaba infantile un po’ «nera» che entra con delicatezza nella testa del bimbetto protagonista illuminandone i vuoti affettivi e gli odi inconfessabili – Piccoli fuochi (1985). O quando riflette con ironia sull’inadeguatezza di due genitori ex-sessantottini (suoi coetanei) come nel divertente Piso Pisello (1981) col ragazzino che diviene padre a tredici anni mostrandosi più maturo di loro.
O ancora quando lo avvicina alla fragilità di corpi e cuori che nelle loro relazioni si scontrano, fuggono, ritornano tra rabbia e dolcezza (Controvento, 2000). E agli incontri straordinari di un on the road della vita – Compagna di viaggio, 1996, duetto irresistibile tra Asia Argento e Michel Piccoli.

CHE CINEMA è dunque quello di Del Monte? Un cinema libero, che si lascia portare dall’amore per la propria materia. Che si abbandona al piacere di narrare, e più ancora di farsi sorprendere dagli accadimenti, dai paesaggi che attraversa e dalle figure che lo abitano. È unico, singolare, si fa fatica appunto a trovare traccia nel sistema italiano, e anche se premiato, invitato ai principali festival, è rimasto quasi segreto. Lui, Del Monte, lo vedeva anche come un problema della sua generazione – «Una generazione di desaperecidos» diceva nel 2000, in occasione dell’uscita di Controvento. E: «Ho l’impressione che al cinema italiano manchi un arto. Forse sarebbe il caso di ricostruirlo, forse il corpo è venuto così strano per questa amputazione … Certo, c’era il problema del confronto coi ’padri’ che ci ha un po’ bloccati, e una parte dei danni vengono anche da lì».

C’È ANCHE che questi suoi film poco si incastravano tra commedie di costume e esibizioni di «realismo». Lui era un cineasta di sensibilità estrema, attratto dalle psicologie speciali e contorte, il cui candore poetico veniva spesso maldestramente isolato, e qualche volta più che criticato rendendolo un autore poco «popolare». Ma è sempre questione di forma. Di campo e di controcampo. E se nell’universo di Del Monte i personaggi femminili sono una presenza forte, modulata su infinite sfumature, lui ha la capacità (unica) di coglierli in una relazione col maschile sempre complessa, che esplora l’attrazione totale, i rimossi, i traumi che deformano l’anima – pensiamo a un film come Nelle tue mani (2007) o a Giulia e Giulia (1987) o lo stesso Piso Pisello in cui il maschile è il bambino con le sue fantasmagorie desideranti di un femminile sensuale riflesse sulla giovane baby-sitter (Valeria Golino) che gli appare nuda nel bagno, e quando cade giocando asciuga con le labbra il sangue sul ginocchio della caduta – oggi probabilmente i neo-moralismi si imbizzarrirebbero inorriditi.
Relazioni e non stereotipi o luoghi comuni di una necessità: è questo che del Monte ha saputo mostrarci mettendo in gioco se stesso e sempre con pudore, delicato nel maneggiare gli intrecci dell’immaginario, senza temerne anche gli inciampi.