Peter Brook è un maestro assoluto di ogni teatro si possa immaginare. Il lavoro umile ma esigentissimo svolto con i suoi attori a Parigi, in quelle che sono state le «sue» Bouffes du Nord ha creato una scuola, quasi una fede religiosa, che ha funzionato da formazione e ispirazione per altri infiniti adepti, in tutto il mondo. Il suo ultimo spettacolo, firmato ora che di anni ne ha 94,con Marie Helene Estienne, fidatissima collaboratrice da molto tempo, si distacca da quelli immediatamente precedenti. Che parevano ripetere e riassumere le varie forme del suo linguaggio e del suo pensiero: un teatro povero, fatto di pochi e celeberrimi elementi scenici, spirituale nella fisicità dei corpi, quanto civile e inclusivo nello sguardo verso gli altri e i diversi mondi da cui i suoi attori (e le più varie umanità, e le loro leggende) provenivano.
Why, «perché», (che lo Stabile dell’Umbria ha portato a Solomeo, e in primavera sarà a Torino) è un grido, ma anche un tormentato sospiro, e una domanda che sottintende il motivo generatore del teatro, e di tutte le conseguenze che può comportare, anche le più tragiche. Fino alla morte come prezzo da pagare o da subire, quasi a contrappasso della vitalità che il teatro distingue e anima. Il racconto parte quindi dalle Scritture e dalle leggende sull’origine di questa forma di espressione, forse donata all’uomo dal Padreterno dopo i sette giorni della creazione, magari per ripagarlo della «noia» in agguato dopo la Genesi.

I TRE INTERPRETI (Hayley Carmichael, Marcello Magni e una Kathryn Hunter davvero straordinaria) la raccontano con grazia e arguzia, ma ben presto lo zoom si fa ravvicinato sul secolo appena trascorso, e l’enfasi ironica della favola si fa pittura di uno scenario di gruppo: i maestri del teatro del novecento, i padri fondatori, o almeno rifondatori, della modernità di scena, e della biografia artistica che Brook si è costruito. Con lampi di battute scorrono Gordon Craig, Stanislawskij, Majakowskij (perfino un grande attore francese come Charles Dullin viene evocato, e prima di tutti Zeami, il massimo teorico del teatro Nô) per arrivare al focus di tutto il racconto,Vsevolod Mejerchol’d.

LA STORIA si fa più forte e dolorosa, per un commediante e per un rivoluzionario, teatrante o spettatore che sia. Il racconto è vibrante e battente, nell’evocare l’utopia rivoluzionaria dopo il 1917, anche sulla scena, che Stalin schiacciò nel sangue. Sia Mejerchol’d che sua moglie attrice furono uccisi, anche se lui continuò fino alla fine a rivendicare la propria fede nel teatro e nel comunismo. La sua eredità artistica, la biomeccanica che dà al corpo una capacità espressiva non inferiore alla parola, è tuttora un patrimonio prezioso, di cui gli stessi attori di Brook dimostrano il Perché. Delineando insieme una sorta di piccolo testamento artistico del vecchio, caro Peter Brook.

CHE dall’ufficialità gloriosa della Royal Shakespeare Company era stato capace negli anni ’60 di scoprire la crudeltà artaudiana con Charles Marowitz, di farne patrimonio collettivo col Marat-Sade, e imporlo a tutti con l’impresa del nuovo modo di fare teatro alle Bouffes du Nord.