Il profilo di Peter Blackstock su Twitter è, secondo lo stile del social, sintetico, allusivo, autoironico: «Immigrato britannico a New York, razza mista (britannico e punjabi malese ) ma con privilegio (accento) inglese. I capelli stanno ingrigendo, ma va bene così. Editor | Grove Atlantic».
Quello che non c’è scritto – ma chi segue Blackstock lo sa – è che nel mondo editoriale di lingua inglese questo (ex) giovanotto eternamente sorridente, perlomeno in fotografia, può vantarsi di avere individuato e seguito una notevole quantità di romanzi su cui sono piovuti riconoscimenti di pubblico e di critica. Per citare solo due tra gli ultimi è, per così dire, «suo» il titolo che ha vinto (a pari merito con The Testaments di Margaret Atwood) il Booker Prize dello scorso anno, Girl, Woman, Other, di Bernardine Evaristo, appena uscito anche in Italia per Sur nella traduzione di Martina Testa (Ragazza, donna, altro, pp. 520, euro 20). Ed è «suo» pure il vincitore del Booker Prize di quest’anno, Shuggie Bain di Douglas Stuart, che non a caso, durante la cerimonia di premiazione, ovviamente virtuale, ha ringraziato Blackstock per essere stato l’unico a credere in lui dopo diversi rifiuti.
Già, perché Shuggie Bain è un romanzo d’esordio (il quinto nella ormai cinquantennale storia di quello che si è affermato come il più importante premio letterario del mondo anglofono) e l’autore, uno stilista scozzese trapiantato a New York, è nel mondo letterario uno sconosciuto che è riuscito ad avere la meglio su grandi nomi come Hilary Mantel e Anne Tyler, entrambe escluse dalla rosa dei sei finalisti.
Insomma, un trionfo per il neo-scrittore Stuart, ma anche un ennesimo successo per Grove Atlantic, gruppo editoriale orgoglioso della propria indipendenza e del proprio catalogo (che include tra gli altri William Burroughs, Samuel Beckett, Malcolm X, Kenzaburo Oe, Harold Pinter) e un riconoscimento ufficiale dell’intuito di Blackstock.
A lui quindi Katie Yee di Lit Hub ha chiesto di rivelare il segreto che gli ha consentito di scegliere e accompagnare nella sua carriera libri tanto diversi e in particolare i due vincitori del Booker, un romanzo sperimentale in versi che esplora le esperienze di diverse donne nere (Girl, Woman, Other) e «un lacerante Bildungsroman intorno alla consapevolezza della propria omosessualità su uno sfondo familiare intessuto di durezza e di dipendenza» (Shuggie Bain).
Ma c’è un segreto? A leggere la risposta di Blackstock verrebbe da rispondere proprio di no – o se c’è, non sarà certo lui a raccontarlo in giro: semplicemente, gli piace lavorare su «libri che riflettano sia l’esperienza americana, in particolare l’esperienza di persone emarginate dal potere sociale, sia il mondo più ampio oltre gli Usa». Quanto all’editing, «ogni libro richiede un approccio editoriale diverso: a volte suggerisco di lavorarci ancora molto, a volte meno, ma una costante è che i miei sono solo suggerimenti per chi ha scritto o chi ha tradotto. Non acquisisco mai testi che non sarei orgoglioso di pubblicare così come sono, ma credo che in parte il ruolo dell’editor consista nell’agire da contrappunto dando all’autore consigli che potrebbero innescare direzioni narrative diverse o aiutarlo a mettere in rilievo un momento cruciale dell’intreccio».
Su un punto, però, Blackstock insiste più volte: «È imperativo che gli editor scelgano libri in cui non vengano rispecchiate solo le loro esperienze. È fondamentale che l’industria editoriale diventi più rappresentativa perché ormai sappiamo che ognuno di noi porta nel suo lavoro pregiudizi, interessi, competenze specifiche». Difficile dargli torto.