«Quando mi faccio la barba mi guardo in specchio con grande ammirazione: – Bravo, caro Ettore, bravo! Adesso dovresti cambiare di nuovo mestiere per vedere quanti altri piccoli talenti sono in te»: così l’«impiegato e letterato Ettore Schmitz», meglio conosciuto con lo pseudonimo di Italo Svevo. Nel momento in cui scrive alla moglie – da Charlton, nel 1903 – Schmitz sembra aver già compiuto un passo decisivo: in seguito all’insuccesso dei suoi due primi romanzi – Una vita e Senilità – ha stabilito di darsi al commercio di vernici e di proibirsi ogni contatto con quella «ridicola e dannosa cosa» chiamata letteratura, per garantire il benessere economico della sua «famigliuola».

In realtà – e ce lo hanno insegnato gli studi di Mario Lavagetto – la svolta è fasulla, perché Schmitz, anche dopo essersi trincerato dietro la rispettabilità borghese del suo «mestiere» di industriale, ha continuato a praticare la scrittura come esercizio «clandestino», componendo a tempo perso racconti, fiabe e testi teatrali.

Dissidio irrisolto
La scena dello specchio, sintomatica di un dissidio irrisolto, può costituire un prezioso avvertimento per i lettori della nuova edizione delle Lettere di Italo Svevo, riapparse in questi giorni nell’attenta cura filologica di Simone Ticciati (con un saggio di Federico Bertoni, Il Saggiatore, pp. 1232, € 65,00). Fin dall’inizio, l’epistolario di Svevo ci costringe a fare i conti con il paradosso di una doppia identità.

Per chi scrive queste lettere, l’io è una creatura scissa e insidiosa, che nasconde sotto le sue superfici un «piccolo delinquente nevrotico», sempre pronto ad architettare bugie, sceneggiate e sotterfugi a discapito dei suoi destinatari. La battaglia fra le diverse persone che compongono il «letterato» finisce per generare un gioco di equivoci e contraddizioni che Svevo, attraverso la comunicazione epistolare, gestisce e complica in modo tutto suo.

Non è un caso se il saggio di Federico Bertoni si preoccupa di metterci subito in guardia rispetto all’impianto «bipartito» del libro. Più di due terzi delle (quasi novecento) lettere consistono di messaggi che il commerciante Schmitz spedisce alla moglie Livia, fra il 1895 e il 1922, durante i suoi viaggi di lavoro; il resto dell’epistolario ci consegna invece la corrispondenza del romanziere Svevo, che fra il 1925 e il 1928, con la pubblicazione della Coscienza di Zeno, si trasforma in un uomo «circa celebre».

Sulla scorta di una simile suddivisione, saremmo portati a credere che da una parte Schmitz ci racconterà i suoi giornalieri sacrifici di letterato «fallito» e costretto alla «realtà» della «vita pratica», mentre dall’altra il «vecchio» Svevo ci parlerà del suo «successo» e dell’improvvisa realizzazione dei suoi «sogni estetici». Tuttavia, proprio questa pista, se la seguissimo, ci porterebbe a ritrovarci invischiati nella «ambigua costruzione identitaria» che costituisce, secondo Bertoni, il problema di fondo dell’epistolario in questione.

Se passiamo in rassegna le comunicazioni indirizzate a Livia, non possiamo non restare sorpresi dalla singolare attenzione che il commerciante Schmitz riserva non soltanto alla «forma» delle proprie lettere, ma anche alle risposte (a noi non pervenute) della sua unica e privilegiata interlocutrice. Giorno dopo giorno, Livia viene invitata a imitare gli accorgimenti epistolari escogitati dal consorte allo scopo di alleviare la forzata lontananza. I messaggi di Livia, come quelli di Schmitz, devono essere «buoni», frequenti, regolari, ma soprattutto «lunghi» e stipati di «esatte» osservazioni sulla storia della giornata trascorsa; devono funzionare, in altre parole, come attestati di reciproca fedeltà matrimoniale che i coniugi si impegnano a scambiarsi, esaminare e persino «rileggere» durante i periodi di separazione. Solo a questi patti la corrispondenza riuscirà a convertirsi in un assiduo strumento di controllo, capace di sedare anche a distanza i sospetti di un marito che rivela la «disgrazia enorme di essere geloso».

Poco importa poi se sarà proprio Schmitz a ritrovarsi vittima del suo stesso sistema inquisitorio, quando nel corso delle sue notturne riletture, da «buon contabile», scoverà fra i bollettini della moglie qualche parola «maldestra» o «fuori di squadra», pronta a turbare la pace delle sue trasferte lavorative. Con i loro «folli scoppi di gelosia», le lettere restano pur sempre «petardi» che consentono al mittente di sferrare un’obliqua vendetta. Svevo se ne serve per sfogare su Livia i suoi nevrastenici malumori, per inveire contro i suoi silenzi e lamentare gli sforzi imposti da un matrimonio male assortito, oppure per ripiegarsi su se stesso e lasciare affiorare dal «fondo» dell’anima «punte di rancore», frustrazioni e inquietudini.

Sosteneva Rilke che una lettera può equivalere a un «piccolo diario intimo». È un’affermazione che Svevo sarebbe disposto a sottoscrivere, con l’aggravante che nel suo caso il diario epistolare riapre le porte a quella letteratura che Schmitz aveva deciso di bandire dal proprio orizzonte. «Si deve tentare di portare a galla dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale», annota Schmitz nel 1899. Ma è proprio in questo modo che lo scrittore di lettere, quando compie le sue quotidiane incursioni nell’inferno della gelosia, finisce per partecipare al generale processo di «scavo» nell’io inaugurato da Dostoevskij con le Memorie del sottosuolo, e proseguito dal Nietzsche di Aurora, dalla psicoanalisi di Freud o dal narratore del Tempo perduto di Proust, «unico minatore» in grado di esplorare il «giacimento» del proprio «cervello».

Le lettere della stagione commerciale, in questo senso, possono apparirci come una provvidenziale valvola di sfogo. Mentre affonda nelle proprie nevrosi quotidiane, Schmitz fa «letteratura spicciola»: si comporta come un romanziere che, dopo essersi vietato di immaginare mondi, trasferisce la propria attenzione dal sogno alla vita orrida e vera. Il discorso epistolare – tornava ad avvertirci Lavagetto – è dunque «pratica sostitutiva» e «surrogato» della scrittura letteraria, ma come tale non smette di risultare una «dannosa cosa».

A farne le spese è soprattutto Livia, che spesso si vede insultata, colpevolizzata e aggredita per aver scritto in fretta, troppo poco e «male», oppure per aver interpretato «a rovescio» le insinuazioni del marito. Non le resta altra scelta che fare «buon viso a cattivo gioco», scusare le periodiche «insolenze» del suo geloso «padrone» e rassegnarsi a rileggere le sue sfuriate, per andare a captare quel «senso» che si cela dietro le parole: «Sono fatto così – le replica Schmitz – e bisogna accettarmi come sono».

Non sono un letterato
Con la sezione «matrimoniale» del suo epistolario, Svevo va ad iscriversi nel registro degli individui incorreggibili. Tanto che se poi ci spostiamo a considerare le lettere del periodo successivo ci accorgiamo che il romanziere, una volta raggiunta la fama, non cancella e non supera le intime contraddizioni della propria indole. «Io non sono un letterato», proclama infatti dal 1923 in avanti, millantando a più riprese gli anni di «assoluta astensione» che lo avrebbero portato a respingere il «demone» della letteratura per «far denari» e mantenere una certa «onestà».

E anche quando capita che la casa Mondadori alteri con uno «specioso pretesto» un accordo già firmato mesi prima, Schmitz si indispettisce per il mancato rispetto dei termini contrattuali: «non ha idea di che cosa significhi per un commerciante – confida allora a Eugenio Montale – non so sopportare una cosa simile».

La svolta, rispetto all’era della gelosia, è soltanto parziale. L’anima mercantile di Schmitz è rimasta in Svevo romanziere e condiziona le sue antiche «ambizioni» divenute realtà: o meglio, lo aiuta a difenderle, a pilotarle, a organizzarle in vista di quella «pubblicazione» che implica un «mondo di noie» e richiede le accortezze di un abile sovrintendente.

Anche per questo motivo le lettere dell’ultima fase non rinunciano all’invasiva velleità di controllo maturata durante l’apprendistato matrimoniale con Livia, ma si affrettano piuttosto a reinvestirla in un diverso settore.

Nell’epoca del suo tardivo successo, Svevo utilizza lo strumento epistolare per far leva sul pubblico e amministrare la propria anomala condizione letteraria con indispensabili contributi alla critica di se stesso e dei propri romanzi. Le lettere, per questi versi, gli servono da un lato per chiarire i debiti contratti – con Schopenhauer e con la psicoanalisi di Freud – durante il suo irregolare percorso di scrittura, ma dall’altro arrivano a tradire anche una più infida funzione.

Quando si rivolge agli ammiratori, Svevo si affretta a ringraziare per gli apprezzamenti che solleticano il suo ego «senile»; al contrario, e in particolare quando si trova a discutere con i detrattori del suo stile e della sua «lingua» da «barbaro», il romanziere sfodera un’argomentazione a noi familiare: «la mia prosa – ribatte nel 1925 a Giuseppe Prezzolini – non poteva essere che quello che è, e purtroppo non c’è più il tempo di raddrizzare le mie gambe».

Anche se il territorio d’azione è cambiato, la strategia resta la stessa già sperimentata dal marito geloso. E non possiamo allora dimenticare che il commercio epistolare dello scrittore, anche nella sua ultima stagione, assume l’aspetto di una trasversale vendetta. Il mittente di questi messaggi – avverte lo stesso Svevo – è un «vecchio vanitoso», un «bambino» adulto e ultrasessantenne, che un tempo spediva «petardi» per punire l’indifferenza della propria consorte, e ora si concede la sua ulteriore rivincita sui critici. Con le loro insistenti rivendicazioni sul passato, le lettere si profilano come estrema forma di risarcimento contro chiunque abbia «fatto il silenzio» attorno a Schmitz e abbia ritardato la nascita del romanziere Svevo, costringendolo a scontare decenni di «vita sotterranea».

«Confesso che sono vendicativo», aveva dichiarato Ettore a Livia fin dal 1898. È un avvertimento che può nascondere la legge generale dell’epistolario di Svevo. Quando è obbligato a privarsi dei suoi sogni letterari, lo scrittore rinuncia forse «facilmente» a praticarli, ma poi, anche a distanza di anni, torna ad esercitare le proprie ritorsioni contro i responsabili della forzata repressione. In un simile universo di ripicche, l’io resta sempre – come voleva Gadda – «il più lurido di tutti i pronomi».

E se Svevo in alcune lettere non smette di allertare gli interlocutori contro i rischi narrativi di ogni «confessione» in prima persona, in altre lavora in senso contrario, per farci accettare il narcisismo tradito dallo scavo epistolare e contrabbandarlo come il più pregiato dei capitali. «Lo scrittore» deve «amare se stesso», guardarsi «allo specchio» e «scrivere ogni sera la storia della sua giornata», suggerisce Schmitz nel 1927 a Cyril Ducker: «è l’unico modo per ottenere una grande sincerità».