L’operazione è iniziata ieri mattina alle 7, 57 agenti di polizia penitenziari, tra i quali il comandante Gaetano Manganelli, tutti in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno ricevuto un avviso di garanzia: la procura, guidata da Maria Antonietta Troncone, contesta i reati di tortura, violenza privata, abuso di autorità. Sono anche stati sequestrati i telefoni cellulari degli agenti. Alcuni di loro hanno protestato con le stesse modalità dei detenuti: sono saliti sul tetto del carcere. L’indagine è partita dalle denunce del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, e dell’associazione Antigone.

I FAMILIARI DEI RECLUSI hanno raccontato di pestaggi e ripetute umiliazioni subite dai carcerati dopo le proteste del 5 aprile. Nei dossier ci sono le testimonianze, foto e registrazioni di conversazioni telefoniche. Nel carcere, infatti, i colloqui in presenza erano bloccati per la pandemia ma si poteva comunicare tramite videochiamata. Il 5 aprile uno dei detenuti del reparto Nilo, addetto alla distribuzione della spesa, finì in isolamento con la febbre alta per sospetto (poi confermato) Covid-19. La notizia alimentò la paura del contagio fino a sfociare in una protesta: circa 150 detenuti organizzarono la tradizionale battitura delle sbarre. Nella terza sezione del reparto Nilo arrivano a barricarsi dietro una barriera di brande, chiedendo la distribuzione di dispositivi di protezione. Il giorno dopo il magistrato di Sorveglianza tenne un colloquio che riportò la calma: accertò infatti che gli atti di insubordinazione non avevano assunto i connotati di una rivolta. Una volta andato via, tra le 15 e le 16, agenti sarebbero entrati nel reparto in tenuta antisommossa, con i volti coperti dai caschi, e avrebbero proceduto ai pestaggi.

GLI AGENTI invece sostengono di aver evitato una sommossa che era in preparazione, sequestrando mazze e pentole d’olio. Ieri hanno contestato la modalità in cui sono stati consegnati gli avvisi di garanzia, all’esterno del carcere davanti i familiari dei detenuti che arrivavano per i colloqui. «Ho regole da far rispettare e i detenuti le devono rispettare. Non rappresento più la legalità» ha protestato uno dei poliziotti salito sul tetto all’indirizzo del procuratore aggiunto Alessandro Milita. «Perché questa eccessiva spettacolarizzazione? – ha aggiunto un collega -, noi cercavamo solo si riportare la calma tra i detenuti». E la Fp Cgil: «La magistratura accerti i fatti ma la situazione è fuori controllo a Santa Maria Capua Vetere, l’amministrazione è responsabile della sicurezza e dell’incolumità del personale e dei detenuti. I lavoratori sono stati lasciati soli».

MATTEO SALVINI si è precipitato ieri pomeriggio nel penitenziario casertano per fare propaganda: «Ho chiuso l’ufficio e sono venuto qui – ha arringato -, è una giornata di lutto per l’Italia. Le rivolte non le tranquillizzi con le margherite. Le pistole elettriche e la videosorveglianza prima arrivano meglio è». E Giorgia Meloni, da Roma: «In Italia arrivano vergognosamente gli avvisi di garanzia alla polizia penitenziaria. E cosa grave, il compito di notificarli viene affidato ad un altro corpo dello Stato, i Carabinieri». Nessuno ricorda cosa è successo ai detenuti.

I DETENUTI temevano che il Covid si diffondesse, erano in una struttura sovraffollata, il Dap aveva diffuso una direttiva: i sospetti affetti da coronavirus dovevano rimanere in isolamento nella cella con gli altri, la porta blindata chiusa ma con il personale che portava i pasti. Tutte misure inadatte a fermare il contagio.

IL 6 APRILE, raccontano, sarebbe partito il primo pestaggio. Quindi sarebbero stati trascinati in corridoio dagli agenti che continuavano a colpirli, costringendoli alla fuga verso le scale fino all’area del passeggio. «Ad alcuni caduti in terra sarebbero stati dati altri colpi – spiega Luigi Romano, presidente di Antigone Campania -. Ad altri sarebbe stato chiesto di uscire dalle celle per una perquisizione. Una volta denudati, sarebbero stati insultati e pestati. Vari detenuti sarebbero stati costretti a radersi barba e capelli. A operazione finita alcuni sarebbero stati messi in isolamento, altri trasferiti in altri istituti. Nei giorni seguenti molte telefonate non sarebbero state consentite. A chi invece era consentito chiamare sarebbero state rivolte minacce nel caso in cui avessero raccontato. Diversi medici avrebbero omesso dai referti i segni delle violenze. Se tutto questo sarà accertato dalla magistratura, allora dovremo dedurre che è stata un’azione organizzata».

Trauma cranico, costole e denti rotti, segni di percosse: i detenuti lo hanno raccontato ai familiari ma non solo, alcuni sono poi usciti in permesso, sul corpo avevano ancora segni e tumefazioni. Antigone, con il suo avvocato Simona Filippi, ha chiesto alla procura di indagare ai sensi dell’art. 613bis, che punisce gli episodi di tortura.