Un terremoto di grado 5 e più. Così Agustin Carstens, capo del Banco de México ha definito l’arrivo di Donald Trump alla Casa bianca. E il peso messicano, già svalutato nell’ultimo anno del 25%, è sceso al minimo storico, perdendo fino al 13%. La Banca centrale messicana ha convocato una riunione urgente. Dalla destra di opposizione, ha reagito l’ex presidente Vicente Fox, uno dei capi del Partito di Azione Nazionale (Pan): «Non pagheremo il maledetto muro – ha detto – siamo piccoli ma piccanti come i nostri peperoncini».

Il presidente messicano, Henrique Peña Nieto, ha invece inviato un messaggio distensivo all’omologo Usa: «Messico e Stati uniti – ha scritto – sono amici, soci e alleati che devono continuare a collaborare a favore della competitività e dello sviluppo dell’America del Nord». Nieto aveva incontrato Trump lo scorso agosto, suscitando forti polemiche per le dichiarazioni del repubblicano: sugli immigrati messicani, sulla proposta di costruire un muro lungo la frontiera meridionale degli Usa, contro l’accordo di libero commercio, il Nafta. Trump ha promesso di stoppare anche i trattati voluti da Obama, come quello Transpacifico, firmato nel 2011, e il suo correlato latinoamericano, l’Alleanza del Pacifico, che ha al centro Messico, Colombia, Cile e Perù: paesi dove il «socialismo del XXI secolo» non è ancora di casa.

Nell’agosto 2015, Trump ha presentato un piano per l’immigrazione in cui ha promesso di deportare 11 milioni di indocumentados: «I leader messicani – ha detto allora – si stanno approfittando degli Stati uniti, usano l’immigrazione illegale per esportare il crimine e la povertà del loro paese. Costruirò un gran muro e farò in modo che il Messico paghi». Il papa Bergoglio aveva reagito con parole dure: «Chi costruisce muri non è cristiano», aveva detto. E ospitando in Vaticano il III Incontro mondiale con i movimenti popolari, ha nuovamente pronunciato parole di fuoco sulla questione dei migranti respinti, denunciando «la bancarotta dell’umanità».

Ieri, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, ha però mostrato un atteggiamento più cauto: «Sui temi specifici vedremo quali saranno le sue scelte», ha detto. D’altronde, Trump, nel suo primo discorso da presidente non ha fatto riferimento al muro con il Messico, nonostante i suoi sostenitori lo incitassero con lo slogan «build the wall» (costruire il muro). Trump ha definito il Nafta (tra Usa, Canada e Messico) «il peggior accordo commerciale mai firmato» e ha promesso di imporre una tassa del 35% per i prodotti provenienti dal Messico: che l’anno scorso ha esportato negli Usa beni e servizi pari 316.400 milioni di dollari, l’80% dei quali nel quadro del Nafta.

Ha anche minacciato di bloccare le rimesse dei migranti messicani, che inviano ogni anno oltre 65.000 milioni di dollari al loro paese, una somma superiore a quella degli introiti petroliferi. Difficile, però, immaginare che, nel quadro dell’economia neoliberista globalizzata, Trump possa procedere a testa bassa contro la seconda economia della regione, mettendosi contro anche i buoni alleati del continente. Gran parte del centro-destra latinoamericano avrebbe sostenuto Clinton proprio per le minacce «protezioniste». E i governi progressisti – che, come nel caso di Correa auspicano che Trump susciti una vera opposizione negli Usa – sono comunque in allerta. Le uniche a festeggiare sono state le destre venezuelane, scatenate sulle reti sociali per la promessa di Trump di farla finita con il «castro- madurismo».