In Argentina, di fronte al crollo della moneta locale, il governo di Mauricio Macri corre a Washington a chiedere aiuti al Fondo monetario internazionale (Fmi). È una vecchia storia quella della svalutazione del peso nei confronti del dollaro. Nelle ultime settimane la moneta ha continuato a perdere valore passando in pochi giorni da una quotazione di 20,5 pesos a oltre 23, ma solo un anno fa un dollaro era scambiato a 15 pesos.

A NULLA SONO SERVITI gli ingenti interventi della Banca Centrale, che ha bruciato 5 miliardi di dollari per evitare il crollo, neanche l’aumento dei tassi d’interesse che sono arrivati al 40%, il dato più alto al mondo, superiore a quello di Suriname (25%), Venezuela (21,7%) e Haiti (20%). Come è tradizione, gli argentini non si fidano della propria moneta e o corrono tutti a comprare dollari.

MARTEDÌ SERA MACRI ha rivolto un messaggio preregistrato spiegando al Paese che i prestiti servono a «mettere fine ad anni di stagnazione ereditati dalla precedente amministrazione» e che tutto è «conseguenza della spesa pubblica enorme ereditata». Tutta colpa del precedente governo Kirchner, accusato di «demagogia e bugie». Quindi il ministro dell’Economia Nicolás Dujovne è stato spedito negli Stati uniti per ridare stabilità al mercato, si dice negoziando un prestito di 30 miliardi di dollari.

Christine Lagarde, il direttore generale del Fmi, ha detto che l’Argentina è un «membro di valore» dell’istituzione, ma non lo era qualche anno fa, quando il paese fallisce proprio per aver portato a termine tutte le raccomandazione proposte del Fondo.

In effetti quando il 19 e 20 dicembre del 2001 esplode la sollevazione popolare chiedendo que se vayan todos (che se ne vadano tutti), il principale accusato era proprio lui, il Fmi. Poi, a partire dal 2003, con l’arrivo dei governi progressisti in America Latina, si consolida una rottura con Washington e la regione si trasforma in un laboratorio aperto di politiche post-neoliberiste.

TRA LE DIVERSE MISURE che hanno sancito un cambiamento di strategia economica e sociale forse la più importante, per il suo valore reale e simbolico, è proprio la cancellazione anticipata dell’intero debito estero di Brasile e Argentina nei confronti del Fmi nel dicembre del 2005. Successivamente l’Argentina ha voluto perfino chiudere la stessa sede locale del Fondo. Si sa che il debito estero è uno strumento largamente usato per condizionare le scelte economiche e vincolare i paesi a ulteriori indebitamenti. La rinegoziazione del debito estero, andato in default dopo la crisi del 2001, è stato un altro dei grandi successi dei governi Kirchner, ma questi risultati vengono ignorati da Macri per “normalizzare” il Paese.

INVECE, proprio l’allontanamento dalle politiche neoliberiste ha contraddistinto gli anni di maggior benessere nella regione. Tutte le stime lo confermano, dalla World Bank alla Cepal (Comisión económica de la América Latina). Secondo i dati della Banca mondiale, se nel 2003 la classe media argentina rappresenta il 24% della popolazione, nel 2009 diventa il 46%, registrando un incremento da 9,3 a 18,6 milioni di abitanti, in termini relativi, il più significativo in America Latina durante il periodo (World Bank 2012). Ora la Cepal indica un’inversione di tendenza che coincide con l’abbandono delle politiche post-neoliberiste in vari paesi della regione. In un documento del 2017 l’organismo delle Nazioni unite dichiara che «le stime regionali aggiornate della Cepal rivelano che dopo 12 anni di diminuzione, tra il 2002 e il 2014, la povertà e la povertà estrema, tra il 2015 e il 2016, sono tornate a salire». Nel 2015 si è registrato un +1,3% e nel 2016 un +0,9% che si traducono in 10 e 8 milioni di persone all’anno tornate a situazioni di povertà» (Cepal 2017). Si vede ancora una volta come la linea del Fmi generi solo povertà per i poveri e ricchezza per i ricchi.

AXEL KICILLOF, EX MINISTRO dell’Economia di Kirchner, ha dichiarato che «la corsa verso Washington solo renderà più profonda la crisi, l’economia deve cambiare indirizzo, il programma neoliberista porta al fallimento dell’industria locale». Anche i vertici della centrale dei lavoratori (Cgt) si sono detti contrari alle negoziazioni con il Fmi e con una certa cautela hanno dichiarato che «non vogliamo apparire come agitatori, come coloro che hanno acceso la miccia», ma nel caso il governo proceda verso politiche di austerity, con l’aumento dei servizi pubblici, «siamo pronti allo sciopero generale». Questa volta non sarà facile per Macri seguire le raccomandazioni del Fmi.