Dopo giorni di annunci e smentite, scambi di accuse tra Rojava e Ankara, l’epopea dei 150 peshmerga diretti a Kobane sembra finita. Sono partiti ieri dalla città curda irachena di Irbil, a bordo di una cinquantina di veicoli militari, diretti verso l’aeroporto. Come se davvero possano fare la differenza: mentre i vari attori della tragedia siriana e irachena discutono e strepitano, ognuno pronto a ottenere dall’avanzata dell’Isis la soddisfazione di interessi personali, i miliziani di al-Baghdadi proseguono nella loro offensiva. Un’operazione lunga cinque mesi, ormai, senza che siano mai stati veramente frenati. Né dalle bombe della coalizione, né dai peshmerga o dall’esercito iracheno, né dal rais Erdogan.

Ieri ad annunciare la tanto attesa partenza dei 150 combattenti kurdi iracheni sono stati funzionari di Irbil. Passeranno per la Turchia e attraverseranno il confine a Silopi, direzione Kobane, con in spalla armi automatiche, mortai e lanciarazzi, tutto made in Usa: «Resteranno fino a quando non saranno più necessari», fa sapere il ministro kurdo Qader.

Nelle stesse ore continuavano a piovere su Kobane le bombe del fronte globale anti-Isis. Una battaglia di propaganda, quella in corso tra Casa Bianca e Stato Islamico, con la prima che elenca i raid e i veicoli militari jihadisti distrutti e il secondo che manda messaggi dalla città sotto assedio. Ieri in un nuovo video è apparso l’ostaggio britannico John Cantlie, diventato l’anchorman di al-Baghdadi, che dice di voler svelare le bugie dei media occidentali: costretto ad atteggiarsi da corrispondente Isis, mostra la città e una bandiera turca al di là del confine.

Non è vero che l’Isis sta perdendo terreno nella città kurda, dice Cantlie: gli islamisti controllano la zona est e sud della città e la conquista definitiva è solo questione di tempo. «Contrariamente a quanto la stampa occidentale vi ha fatto credere, la battaglia per Kobane sta arrivando alla fine. Come potete sentire, qua è molto calmo, ci sono solo spari occasionali».

Propaganda o meno, l’Isis non arretra. Non solo a Kobane: ora vicino alla caduta è Idlib, città siriana a 30 km da Aleppo. Lunedì miliziani dell’Isis e del Fronte al-Nusra (ex gruppo qaedista, oggi affiliato allo Stato Islamico dopo la stipula di un patto di non aggressione) hanno temporaneamente occupato la sede del governatore e avrebbero decapitato 70 soldati governativi, prima che l’esercito di Damasco riuscisse a riprenderne il controllo. La nuova alleanza tra al-Nusra e al-Baghdadi preoccupa non solo il governo siriano, ma anche il vicino Libano, dove da mesi i miliziani del Fronte compiono attacchi e stragi nelle comunità di frontiera.

E Idlib è strategica: situata tra Aleppo e la città costiera di Latakia, rappresenta il punto di collegamento tra la zona dove l’Isis è più forte – il corridoio da Aleppo a Raqqa, roccaforte islamista – e il Mediterraneo. L’attacco congiunto dei due gruppi è partito dai quattro lati della città, nel classico stile Isis, e ha permesso di assumere in breve tempo il controllo del palazzo del governatore e del quartier generale della polizia. L’esercito di Damasco non ha impiegato molto a liberare i due edifici, ma la facilità con cui gli islamisti hanno invaso la città dimostra ancora una volta le consistenti capacità militari dello Stato Islamico.

Simili attacchi rendono ancora più instabile l’equilibrio interno alla coalizione: Washington non intende parlare con Damasco, seppure il nemico sia lo stesso. A peggiorare la posizione di Obama è la scomparsa delle opposizioni moderate, Esercito Libero Siriano in testa. Il gruppo, braccio armato della Coalizione Nazionale, battezzata due anni fa dall’Occidente unico rappresentante legittimo del popolo siriano, è all’angolo, nonostante i tentativi statunitensi e turchi di infilarlo in un nuovo programma di addestramento.

Ma l’Els continua a perdere terreno: dopo tre giorni di offensiva, il Fronte al-Nusra ha strappato al controllo del gruppo di opposizione moderato una delle poche aree a nord non ancora sotto il controllo jihadista, una serie di villaggi fuori da Idlib. Tanto che la stessa Casa Bianca guarda ormai con rassegnazione all’Esercito Libero, considerandolo non più un efficace strumento militare, ma solo l’eventuale parte di una soluzione politica del conflitto. Insomma, le opposizioni moderate non sono in grado di liberare Damasco da Assad, ma possono essere formate per diventare un’alternativa politica più credibile di quanto siano ora.