La biblioteca Edmondo De Amicis, ricavata da una sala di quelli che furono i Magazzini del Cotone nella parte antica del porto di Genova, affaccia sulla banchina dove vengono ormeggiati i mega yacht che navigano mari e oceani. Barche lucide dai pavimenti lucidi, lustrate da giovani uomini vestiti di bianco: barche che trasudano opulenza. Nella piccola sala della biblioteca da cui si vedono questi colossi del mare scintillare sotto il sole genovese, gli uomini delle piccole barche e della piccola pesca parlano di passato e di futuro. La discussione è coordinata dall’Ufficio Africa di Slow Food. Loro, i pescatori, sono tredici uomini dalle mani grandi, volti scavati da rughe e sale, sembrano usciti da un universo parallelo e romantico: raccontano la lentezza, la giustizia e l’idealità a un passo dalla potenza del denaro che impone la sua legge.

VENGONO QUASI TUTTI da una piccola isola tunisina, Kerkennah, dove hanno deciso di portare avanti antiche tradizioni di pesca che reputano, a ragione, nettamente più moderne dell’imperante modello basato sulla furibonda depredazione.

Poco lontano dal loro confronto, che coinvolge anche due giovani pescatori ugandesi – Laurent e George – si dipanano i tendoni dei gazebo sotto cui si svolge, fino a domenica sera, l’ottava edizione di Slow Fish, l’evento internazionale dedicato al pesce e alle risorse del mare. «La rete siamo noi» è il tema di quest’anno, che mette insieme conoscenze, scambi e relazioni tra centinaia di «nodi» per i quali Genova è ormai un punto di riferimento imprescindibile. Per coloro che sono passati da Torino in tempi più o meno recenti per Terra Madre o il Salone del Gusto, è bene sottolineare che si tratta di un evento meno mastodontico: un grande mercato dove è possibile conoscere una cultura del pesce diversa, grazie a dibattiti, confronti, prove spettacolari. L’idea, come sempre è quella di far compenetrare la cultura del cibo quale leva per un cambiamento sociale, con il piacere del gusto.

 

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E per fare questo sono necessarie persone come Neji, Morsi, Mohamed, Hadi, Hafed e tutti gli altri che si ostinano a voler pescare con metodi tradizionali. Per una moda che arriva dagli occidentali in cerca di nuove forme emotive? Magari proprio per quelli che solcano i mari con i mega yacht? L’incontro con i pescatori, a tratti sconcertante, mette bene in evidenza che lo spirito che li muove non ha relazione con un affarismo usa e getta. Se si esclude il viaggio che fanno, forse, verso Genova una volta ogni due anni, altri vantaggi in termini materiali sono difficili da individuare. Il loro operare, che definiscono per lo più «incompreso» dalla maggior parte dei colleghi di Kerkennah, è fondato su uno principio economicamente intangibile: la creazione di una comunità. Anche se si potrebbe dire, con maggiore afferenza con la realtà: la resistenza di una comunità disgregata dalla pesca selvaggia. Loro pescano utilizzando un tecnica antica, per molti versi folle: la Charfia. Ovvero la costruzione di un labirinto fisso in mare con quattromila foglie di palma da dattero intrecciate, in cui il pesce entra e rimane intrappolato: un lavoro ciclopico, che però riesce a far compenetrare in perfetto equilibrio l’agricoltura, l’artigianato e la pesca. Il progressivo dilagare delle reti a strascico non solo ha devastato questo equilibrio sociale, ma ha anche aggredito la biodervisita delle isole di Kerkennah. Da qui la presa di coscienza, da parte del piccolo gruppo di pescatori che si trova a discutere a Genova, della necessità di creare un supporto culturale potente, che tenti di contrastare l’egemonia della pesca industriale che sta sfasciando l’ecosistema marino e umano. La scelta quindi è caduta sull’Ufficio Africa di Slow Food Internazionale, che grazie a un’équipe di etnologhe e antropologhe collabora con L’Assocation jeune science de Kerkennah.

DALLA COLLABORAZIONE è nato un festival che si svolge sull’isola nel mese di ottobre, che ha come fine non già l’attrazione di orde di turisti europei e statunitensi desiderosi di abbuffarsi di buon pesce, bensì la ricostruzione dell’ordito sociale intorno a un momento «buono, pulito e giusto».

Progetti, esperienze, delusioni e successi, di questo si parla durante gli incontri che sono tutti connotati dalla stringente consapevolezza che il mare sta bruscamente cambiando forma, ormai sempre più simile a un deserto in cui quando si butta la rete è molto più probabile pescare plastica anziché pesce.

L’obiettivo è anche quello di preservare le comunità dal rischio di emigrazione forzata, perché il mare porta ricchezza ma sa strappare via anche dalle proprie radici.

NEJI, IL PIÙ ANZIANO del gruppo, ha mani forti, occhi azzurrissimi e la viva speranza che i suoi figli portino avanti la sua rivoluzione che passa dalla pesca tradizionale. «Migrare, andare via da casa mia? Non ci ho mai pensato», dice scandendo le parole e cadenzandole con il perentorio gesto della mano. «La mia vita è in mare, ma questo deve essere salvato. I giovani dovrebbero capire, si dovrebbe investire di più sulla formazione, ma è molto difficile», aggiunge. E ovviamente, gli altri non possono che confermare una situazione molto complicata in cui si muovono questi uomini percepiti, a casa loro, come dei visionari romantici.