Quando sentiamo parlare di pesca illegale di solito associamo questa pratica alle specie protette, a spietate aziende e privati disposti a pagare qualsiasi prezzo per un piatto «proibito». Più difficile è pensare in questi termini al pesce che troviamo ogni giorno al banco del supermercato. Secondo l’ultimo report della Banca Merci Telematica Italiana, il nostro paese importa oltre un milione di tonnellate di prodotti ittici, che costituiscono ben l’80% del pesce che consumiamo in un anno. Tra questi, viene calcolato che almeno il 50% sia privo della corretta documentazione che ne certifica la piena legalità, non solo in termini di qualità del prodotto, ma anche del rispetto delle normative internazionali per la tutela della fauna e dell’ecosistema marino.

NEL XXI SECOLO IL SETTORE ITTICO SI E’ TRASFORMATO in poco tempo in un’industria dalle dimensioni impressionanti. Da sbocco occupazionale per le popolazioni costiere, nei quarant’anni successivi al secondo dopoguerra il pescato mondiale annuale è quadruplicato. L’evidente crollo della popolazione marina ha causato preoccupazioni tali da spingere i paesi a rivendicare la sovranità sulle risorse presenti nelle acque circostanti. Prima tra tutte, l’Islanda rivendica nel 1975 il limite di pesca esteso a 80 km dalle proprie coste: nasce così il diritto alla gestione esclusiva delle risorse ittiche sancito nel 1982 con la Convenzione ONU sul diritto del mare. Il trattato, ratificato da 157 paesi, stabilisce i limiti della giurisdizione nazionale sulle acque marine. Ogni paese con sbocco sul mare ha diritto a reclamare le risorse all’interno della propria Zona Economica Esclusiva (Zee), definita entro le 200 miglia nautiche (circa 370, 4 km). Nonostante ancora oggi ci siano grandi assenti dal trattato come gli Stati Uniti, preoccupano le crescenti violazioni del diritto del mare che portano nel nostro paese il frutto della pesca illegale, spesso inserito in un contesto più ampio di attività illecite.

SECONDO LA FAO LA CRESCITA DEL CONSUMO pro capite di pesce in tutto il mondo è costante. Calcolata a 9, 9 kg negli anni Sessanta, oggi è di 20,5 kg. In Italia abbiamo invece già raggiunto i 30 kg di consumo pro capite in un anno. Una cifra insostenibile per l’ecosistema, che giustifica la dipendenza del nostro paese (e tanti altri) dalle importazioni. Anno dopo anno aumentano le voci che cercano di trovare una soluzione all’overfishing, la pratica di pescare oltre i limiti consentiti dalle leggi e dall’ecosistema, ma con la stessa velocità crescono le irregolarità: aziende che violano i periodi di blocco alle attività, pescherecci che caricano quantità di specie superiori ai limiti consentiti dalla legge, navi che pescano in zone vietate.

QUESTO TIPO DI ATTIVITA’ VENGONO RICONOSCIUTE come pesca «illegale, non dichiarata e non regolamentata» (Inn) e costituiscono un serio problema a livello internazionale e domestico. Internazionale, perché le attività dei pescherecci violano le già citate Zee dei diversi paesi, spesso approfittando della carenza di risorse di questi ultimi per controllare in maniera efficace le aree a rischio. Domestico, perché la pesca illegale riesce a fare enormi profitti con la svendita al ribasso che penalizza le imprese locali o quelle che lavorano nel rispetto delle normative.

SECONDO GREENPEACE LE IMPRESE CHE PRATICANO la pesca Inn usano diversi metodi per ridurre la trasparenza sui mercati. Per esempio, vengono creati complessi assetti proprietari e le navi vengono registrate impiegando bandiere di comodo (o bandiere ombra) in modo da approfittare non solo di alcuni vantaggi fiscali, ma anche della minor attenzione alle normative internazionali da parte di uno stato rispetto a un altro. Registrare un peschereccio sotto la bandiera di uno stato diverso da quello del proprietario non permette solo di eludere i regolamenti sulla provenienza e la qualità del pescato: queste «libertà» consentono anche standard di sicurezza e di lavoro più bassi.

GLI ULTIMI DATI DELL’ORGANIZZAZIONE Internazionale del Lavoro (Oil) parlano di almeno 40 milioni di persone in condizioni di schiavitù, tra questi una significativa parte trova lavoro nel settore della pesca industriale proprio per la forte domanda di forza lavoro e gli scarsi controlli. In un report sul settore della pesca in Thailandia, il più approfondito mai eseguito nell’ultimo decennio, viene evidenziato come il settore del traffico di esseri umani e dello sfruttamento dei lavoratori – soprattutto migranti senza documenti – sia un dato che tende ad aumentare con gli anni, anziché diminuire.

INSIEME ALLA PRATICA DELLA PESCA INN e alla violazione dei diritti dei lavoratori, la «criminalità della pesca», definizione dell’Interpol per l’insieme degli illeciti interni al settore della pesca industriale, si estende al traffico di droga e di armi. In una conferenza sulla criminalità transnazionale tenutasi a Copenaghen nel 2018 sono emersi i problemi degli stati più deboli del Pacifico davanti alle organizzazioni criminali che sfruttano il settore ittico per inserirsi con le loro attività, tra cui emergono anche il traffico di fauna marina protetta dal valore di 850 milioni di dollari. In quell’occasione Fleming Umlich Sengebau, ministro della pesca di Palau, aveva espresso la propria preoccupazione verso la devastazione dei mari intorno all’isola a opera dei pescherecci industriali che transitano nella zona per compiere attività di overfishing, sicuri del fatto che al paese mancano le risorse finanziarie per allontanare queste flotte.

I PROBLEMI DEL TRAFFICO DI DROGA ed esseri umani nel settore ittico si riflettono nella situazione critica delle comunità di questi paesi, piagati da condizioni economiche che spingono i piccoli pescatori a unirsi alla corsa alle armi e al traffico di droga perché in mare non ci sono sufficienti stock di pesce per permettere ai locali di sopravvivere.