Pesaro, contronarrazioni e lezioni di storia
Nell’ultima edizione della Mostra del nuovo cinema di Pesaro, i film mostrati nella sezione delle Lezioni di Storia, quest’anno focalizzate sul cinema post-coloniale (a cura di Federico Rossin), più l’approfondimento dedicato al lavoro di Anna Marziano (a cura di Federico Rossin e Rinaldo Censi) sono state senz’altro occasioni importanti per approfondire il discorso su modi altri di concepire l’uso del dispositivo cinematografico.
Fra i film mostrati nelle Lezioni di Storia, La Zerda ou Les chants de l’oubli ha dato modo di avvicinarsi alla parte forse meno nota dell’opera della sua autrice, l’algerina Assia Djebar (1936-2015). Ovvero una figura di spicco nel panorama della letteratura, del femminismo, della vita politico-intellettuale nordafricana e internazionale (per saperne di più della sua biografia, si può consultare la sua pagina in rete dell’enciclopedia delle donne).
Quanto al film nello specifico si può dire che si tratta di un lavoro di montaggio di un fascino raro, a suo modo perturbante. La rappresentazione «documentata» di partenza (materiale d’archivio, visione coloniale francese) proviene dalla Pathé Gaumont. Articoli relativi al progetto ci raccontano che la compagnia sembra aver avvicinato Djebar – fra le tante cose, è stata anche una docente di Storia – per invitarla a dare uno sguardo ad alcune vecchie bobine. Queste si sono poi rivelate essere cinegiornali scartati sulle colonie francesi nel Maghreb, immagini il cui arco temporale va dal 1912 al 1942, toccando quindi Paesi come il Marocco, la Tunisia, l’Algeria.
Coadiuvata dal poeta Malek Alloula e dal compositore Ahmed Essyad, Djebar è riuscita a sottoporre il materiale cine-visivo ad un lavoro in cui è soprattutto il confronto critico con il commento fuori campo – una composizione polifonica di voci non identificabili – a far emergere una sorta di contronarrazione storica tra le pieghe di quella documentazione. Come dire, il suono contro l’immagine: in senso lato, una dialettica che rifletterebbe quella tra oppressi e oppressori. Nell’introduzione del film, l’autrice parla di un «velo» di una realtà esposta dietro cui «si sono svegliate voci anonime che hanno raccolto o re-immaginato l’anima di un Maghreb unificato.» Centrato sulla vocalità femminile, questo flusso fa trasparire un senso del «noi» altro e in opposizione a quello che si vede. È una operazione che «contestualizza» scene e situazioni apparentemente non traumatiche: ne smaschera la reificazione e ne fa percepire la violenza rimasta fuori dall’inquadratura. Come scrive la studiosa Stefanie Van de Peer nel suo Negotiating Dissidence: «Le voci contraddicono quello che accade sullo schermo, e accusano il colonizzatore invece di riconoscerne gli sforzi. Questo «noi» contrasta con il «loro», che si può identificare con il colonizzatore non-magrebino o con il pubblico francese.»
Nonostante le mode che la propongono come speculazione teorica di oggi, è innegabile che il pensiero filosofico si sia interessato alla vita sensibile fin dalle sue origini. Diverso, invece, è il discorso per un linguaggio come quello del cinema, dove – forse – solo gli sviluppi recenti della cosiddetta forma saggistica permettono una focalizzazione più chiara in merito. In Italia, fra gli autori e la autrici riconducibili al tema, Anna Marziano spicca per inventiva e profondità.
A Pesaro, per la prima volta, si è potuta ammirare tutta la sua produzione: Mainstream (2009, video); La Veglia (2010, Super8); De la mutabilité de toute chose et de la possibilité d’en changer certaines (2011, 16mm); Variations Ordinaires (2012, video e microscopio); Orizzonti orizzonti! (2014, 16mm e video); Au-delà de l’un (2017, Super8 e 16mm); Al largo (2020, Super 8 e 16mm); Tutto qui (2022, 16mm). Fra questi, Au-delà de l’un può forse essere preso come modello di riferimento per parlare di una caratteristica importante nell’autrice.
In sintesi, utilizzando quanto già leggibile altrove, si potrebbe riassumere il film come «una vasta esplorazione di diversi tentativi d’amare che attraversa il labirinto della violenza domestica e del dolore causato da ideali o circostanze sociali, in cui si riflette su differenti forme del vivere insieme».
L’opera è tutto questo, certo, ma non solo. Lo sguardo di Marziano fa la differenza. Può essere definito saggistico, perché incline alla non-linearità, alle idee, ma il cosiddetto io autoriale – qui più sistematicamente che in altri casi – sembra eclissarsi. Non c’è narcisismo. In un certo senso, è come se il suo punto di osservazione non si ponesse in modo distinto, ma tendesse a concatenarsi alle storie, alle voci, alle presenze che compongono il quadro. C’è, se si vuole, un pensiero sensibile all’opera, tanto empatico quanto vivo, dove rivelazione e transitorietà si compenetrano, e dove tutto, alla fine, è collegato con tutto.
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