Un martedì di aprile del 1887, o forse un mercoledì, Thomas Hardy viaggiava con la moglie Emma su un treno diretto a Venezia. Veniva da Firenze dove si era fermato due settimane. Sembra fosse di buonumore durante quel soggiorno fiorentino, spezzato da una visita a Roma in cui lo avvolgerà invece un senso così opprimente di decadenza, magari per suggestione del Fauno di marmo di Hawthorne letto pochi anni prima, da descriverla come uno strano sonno appiccicoso di incubi. Nella memoria conserverà di Firenze l’armonia delle ore in cui era rimasto seduto sui gradini della loggia dei Lanzi mentre Emma acquerellava. Lo tratteneva il colloquio silenzioso tra le statue, quelle in fila alle sue spalle e le altre al centro della piazza, le Naiadi sul bordo della fontana e il marmoreo Nettuno che illuminava di un arcano bagliore il caffé di fronte. Rifletté allora che in «un’opera d’arte non ci incanta l’intenzione ma l’incidente», le crepe e i graffi, le superfici divenute scabre nel tempo, i toni ambrati delle cavità. Era uno dei suoi ultimi pomeriggi a Firenze. Dopo la sosta a Venezia si sarebbe diretto a Milano e poi di nuovo nel Dorset. Benché allora non potesse saperlo, in Italia non sarebbe mai tornato.
Quella settimana, forse addirittura lo stesso giorno, in direzione opposta viaggiava Henry James. Rientrava a Firenze da Venezia dopo un’assenza durata più di un mese. Era di pessimo umore, irritato dall’umida cupezza della città e da un attacco di lombaggine. In quella primavera italiana Hardy e James dunque non si incontrarono: si direbbe anzi che si sfuggirono. Del resto i due non si amavano. James nel 1874 aveva stroncato Via dalla pazza folla su «The Nation» accusando il suo autore di avere scritto un romanzo dallo stile «ingenuamente verboso e ridondante», troppo lungo per quel soggetto rozzo e insieme artificioso. «L’aspetto più genuino del libro», aggiungeva, è il suo «aroma di prati e sentieri»; poiché tutto ciò che riguarda i personaggi è privo di realtà, «l’unica cosa a cui possiamo credere sono i cani e le pecore». Con acuminata simmetria Hardy annotava nel 1888, appena letto Il riflettore, che le opere jamesiane inducono il bisogno di un’«intenzionale noncuranza dei dettagli» e che le sue trame destano interesse «solo nei momenti in cui non si ha niente di più importante a cui pensare».
Potrebbero del resto essere più diversi Tess dei D’Urberville e Ritratto di signora, per quanto narrino entrambi uno scontro tra vecchi e nuovi valori che genera delusione infelicità, dolore? Intrappolate nel loro destino da un identico abbaglio, dalla medesima incapacità di riconoscere la manipolazione maschile, Tess Durbeyfield e Isabel Archer appartengono tuttavia a universi espressivi divergenti: poco ha da spartire il candore selvatico dell’una con la raffinata ingenuità dell’altra. È lontano l’ambiente cosmopolita che percorre Henry James da quello rurale in cui si chiude per scelta Thomas Hardy; opposte sono le loro idee riguardo al comune mestiere. «La sola ragione di esistere, per un romanzo, è il suo tentativo di rappresentare la vita» sostiene James nel saggio L’arte del romanzo (1884). In una pagina autobiografica del 1893 riflette Hardy: «Una storia deve essere abbastanza eccezionale da meritare di essere narrata» e il narratore dovrà avere qualcosa di più «insolito da raccontare della banale esperienza di un uomo o una donna qualsiasi». Ha senso che James paragoni il romanzo a una pittura minuziosa, Hardy invece a una drammatica scultura.
Anche James a Firenze fu incantato dalle statue. Le sue, lo scriverà in Ore italiane (1909), sono quelle «coperte di muffe» che animano il giardino di Boboli dentro i «loro sipari di cipressi». Per quanto «mute» e con «gli occhi vuoti», irradiano un senso della storia che gli «toglie il respiro». Nel 1873, durante il primo viaggio in Italia, è proprio a «dispetto delle statue» che una «villa romana» si impone alla sua attenzione per «un riverbero più corto e sottile rispetto a quello di una vecchia casa di campagna inglese». Nasce da questo crocevia di pensieri, certo anche in dialogo con quel Fauno di marmo al cui autore James avrebbe dedicato una monografia nel 1879, il giovanile L’ultimo dei Valerii (in Racconti di fantasmi, trad. italiana di Maria Luisa Castellani Agosti, Einaudi 1988), uscito su «The Atlantic Monthly» nel 1874 e accolto un anno dopo nel volume A Passionate Pilgrim. Narrata in prima persona da un pittore americano, è la storia del matrimonio tra la sua figlioccia Martha e il conte romano Marco Valerio. Lei è «dolce e pura», lui «un po’ ottuso» ma «bellissimo», lui possiede un’antica villa di famiglia, lei il denaro per restaurarla. Lei intende finanziare scavi nella proprietà, lui vorrebbe che il «silente, imperturbabile passato» rimanesse invece nascosto sottoterra. Marco non ama le statue, custodi di «segreti di pietra» che «guatano» come «fantasmi» dalle loro «orbite vuote». Appena gli archeologi scoprono una Giunone di «bellezza perfetta» e «sguardo quasi umano», così «espressiva da non potere essere inanimata», il conte però ne è rapito. La visita ogni notte, ai piedi di lei assumendo lui stesso nella luce lunare le sembianze di una statua; preso da quella «fantasiosa passione» pronuncia «parole smozzicate», nel suo «inebetito torpore» emette un «gemito prolungato e triste». L’incantamento si spezza quando Martha, con un inconsueto gesto di imperio, fa di nuovo interrare la Giunone. È il tema jamesiano del peccaminoso passato il cui risveglio avrà conseguenze nefaste sull’innocenza del presente. Ma il testo si direbbe anche alludere a un’immagine della sessualità femminile pietrificata e minacciosa, comunque punitiva benché in apparenza sottomessa.
È rovesciato, malgrado l’analoga scelta del titolo, il punto prospettico da cui Hardy scrive Barbara della casata dei Grebe (in I tre sconosciuti e altri racconti, trad. italiana di Leonetta Bentivoglio, Garzanti 2006), seconda delle otto storie raccolte in A Group of Noble Dames. Pubblicato nel 1891, composto da ritratti femminili ispirati a vicende accadute un secolo prima, il volume è provvisto di una cornice che mostra i soci di uno dei Wessex Field and Antiquarian Clubs inchiodati dalla pioggia nel museo locale. La protagonista di Barbara, narrato in prima persona dal medico, è «una fanciulla buona» che sposa in segreto un uomo di «aspetto meraviglioso» ma di rango inferiore. Spinto dai suoceri a partire per un lungo viaggio di istruzione, Edmond rimane orribilmente sfigurato nell’incendio di un teatro a Venezia, trasformandosi da «Apollo» in un povero «residuo umano». Il suo ritorno e il rifiuto di Barbara, la fuga di lui, le nozze di lei con un conte. La fiaba diventa nera quando da Pisa arriva una statua che Edmond aveva commissionato per ricordarsi alla moglie. Barbara è estasiata: le erige un tabernacolo, la visita di notte emanando «un’intima beatitudine», alla luce delle candele acquisisce «l’aspetto cereo di una seconda statua» abbracciata alla prima. Pronuncia con «dolcezza infantile» parole interrotte da «lacrime» e «sospiri». In un crescendo di malvagità e terrore, il conte deturpa la statua e obbliga Barbara a fissarla fino a cancellare ogni sua volontà. Barbara muore a Firenze; i resti della statua, affiorati durante lavori di restauro eseguiti dal nuovo conte, saranno scambiati dagli esperti per frammenti di «un satiro romano mutilato».
Cosa intende narrare Hardy in questa storia così gotica? Che il passato è più rassicurante del presente? Che la passione non si può «artificialmente riportare in vita» senza un «vero, persistente» affetto? Hardy racconta, come James, una malattia: ma la sua è una malattia che invece di guarire si aggrava con la cura. In Hardy la sessualità femminile non punisce, viene punita perché è selvaggia e desiderante e libera. Da una villa romana a una casa di campagna inglese, dall’antico all’anticaglia, Hardy sta forse sfidando James in una partita giocata con le statue sul corpo femminile? I loro sguardi si sfuggono perfino nei due celebri ritratti esposti a Londra: una vitrea nebulosa quello di Henry James, quello di Thomas Hardy un lampo obliquo. Non lo sapremo mai.