Per una coincidenza fortuita, lo spettacolo di Gabriele Lavia costituisce anche il saluto dell’attore e regista all’istituzione che negli ultimi anni ha diretto. Questo ha ovviamente delle implicazioni sul Teatro di Roma, che è il più importante della città ma anche uno dei più rilevanti su scala nazionale , su cui varrà la pena tornare più avanti, ma in ogni caso va ad assumere un particolare significato anche «estetico».
I pilastri della società infatti (in scena all’Argentina fino al 22 dicembre, e poi da febbraio in tournée italiana), fu scritto da Henrik Ibsen nel 1877, ma conserva intatto, dopo quasi un secolo e mezzo, il suo caustico messaggio morale e sociale. Tutti i testi dell’autore norvegese per la verità continuano a riflettere, in maniera davvero quasi «profetica», le doppiezze e le perversioni di un capitalismo che allora era egemone, ma che ancora oggi continua a avvilupparsi nelle spire dello sfruttamento altrui, della finanza come rimedio bugiardo alla propria inadeguatezza, della corruzione di principi e persone ove non sia percorribile una via lineare. È abbastanza impressionante, dopo un secolo e mezzo di lotte sociali e politiche, rivedere in trasparenza, in questo come in altri testi ibseniani, il diagramma preciso di certa spregiudicatezza perfino assassina, o l’ipocrisia proterva della negazione dei diritti fondamentali che credevamo di aver acquisito.
Tutte cose, e caratteri e motivazioni, che sono la sostanza drammaturgica di quei Pilastri (fino a ieri tradotti dalla tradizione «colonne», ma che la bella traduzione di Franco Perrelli esplicita ulteriormente come base, fondata o farlocca che sia, delle nostre contemporanee società «liberali» e mercantili). Il console Bernick, protagonista del dramma là sulle coste scandinave, è non solo pilastro, ma addirittura cardine del sistema di potere della sua città.
Coltiva sì la propria famiglia devota e borghese, ma ancor più tresca con i suoi amici di pari livello per la costruzione di una ferrovia (da sempre bifronte vessillo di «progresso» e di conflitto), ne ottiene lo spostamento, si premunisce nell’acquisto anonimo dei terreni che dovrà attraversare, comprandoli prima che acquistino valore. Possiede cantieri navali dove per rispettare contratti vantaggiosi costringe gli operai a riparazioni fasulle, destinando a naufragio sicuro le navi alla prima tempesta. Soprattutto ha cominciato presto ad agire per bluff, nascondendo omicidi, addossando al cognato (costretto a fuggire oltre oceano) lo svuotamento della cassa familiare, con cui ammetterà di aver pagato i creditori, «salvando» così l’impresa.
È evidente, già da questi elementi, come sarebbe facile addirittura dare delle identità anagrafiche contemporanee a quel tipo di azioni e responsabilità, nonostante Ibsen, per fare piazza pulita del teatro naturalistico, creasse i suoi personaggi come funzioni di quanto voleva narrare e disporre sulla scena per addentrarsi nella crisi borghese.
Resta comunque non solo attuale, l’autore, ma giganteggia per i suoi racconti, anche se (a differenza di oggi) il finale dei suoi drammi è solitamente foriero di giustizia e verità, in mancanza di una possibile redenzione piena dei personaggi. Capita così a John Gabriel Borkmann e allo spregiudicato affarista Nemico del popolo, protagonisti degli omonimi drammi. Quest’ultimo per di più condivide col personaggio centrale dei Pilastri una perversa convinzione, senza scrupolo alcuno, sulla corruttibilità della stampa, la cui pratica è giunta intatta ai giorni nostri, soltanto ampliata dalle tecnologie.
Ma sicuramente è l’assunto morale di quelle vicende ad aver attratto Lavia, seppure con il desiderio di inserirlo nel suo stile teatrale. In un dispiego lussuoso e vistoso di sipari, ambienti successivi, salotti folgoranti, illuminazione a candele come fosse Barry Lindon, un saliscendi di «quarta parete» a vetrate raddoppiate sul fondo, e trasforma diversi metri di profondità del palcoscenico in un puro corridoio di passaggio per accedere a casa Bernick, nei cui ambienti per intero si svolge l’azione. Che come si capirà, cozza un poco con l’assunto antinaturalistico di Ibsen. A dominare è, come spesso accade a Lavia, l’enfasi, a momenti spropositata, anche nei lunghi momenti di sospensione che fanno durare lo spettacolo oltre le tre ore e mezzo.
Lavia, nel peignoir vellutato e istoriato del protagonista, ha il suo noto modo di recitare, in eterno rischio di sconfinare nella retorica. Gli altri a momenti si lasciano tentare dallo stile di lui, e rischiano addirittura di non farsi capire, in un eccesso di birignao (sepolto sotto parrucche, merletti e ornamenti) che davvero sembra oggi lontano anni luce dalla nostra sensibilità. Con l’eccezione dei comprimari che difendono la propria professionalità (Graziano Piazza, Viola Graziosi, Federica di Martino) tutti si affanno a colorire e confondere il lucido scavo di Ibsen nella società presente e futura.
Ma il teatro di Lavia è quella cifra particolare, che miete sostenitori che gridano e applaudono, e delusi in preda allo sconcerto. Allo stesso teatro, poche settimane fa, è passata una Hedda Gabler messa in scena da Thomas Ostermeier che, senza essere necessariamente un capolavoro, usava le tecnologie dello spettacolo di oggi (una pedana rotante che conteneva quattro diverse prospettive sceniche) in cui il rigore degli attori rendeva quasi «chirurgico» il bisturi ibseniano nei rapporti sociofamiliari e di genere. Per non parlare del Nemico del popolo che viene dato d’estate sull’appennino tosco-romagnolo, in cui senza forzature suona l’eco dei verbali giudiziari sull’Ilva di Taranto.
Ma, appunto, è una questione di stile, e ciascuno sceglie il suo, come Lavia che saluta in pompa magna (e scarsa sensibilità al momento critico) il pubblico dell’Argentina. Vale anche per le direzioni dei due enti pubblici di spettacolo nella capitale. Al Teatro di Roma il cambio di gestione vede sempre candidato principale Ninni Cutaia, sulla cui scelta nulla si può obbiettare, ed anzi può alimentare le migliori speranze. Anche se l’insana passione del Campidoglio per Alessandro Gassman, vede questi ora candidato a presidente dell’ente (come responsabile artistico era veramente pleonastico rispetto a Cutaia).

Meno sgrammaticata, ma ugualmente forte, l’annunciata scelta felice di Carlo Fuortes come commissario all’Opera. Resistono con sorda opposizione i molti beneficiati della passata gestione by Alemanno, e anche i sindacati fanno resistenza per motivi occupazionali. Ma dato il debito accumulato e il basso livello raggiunto, bisognerà che attorno a qualche tavolo si trovi.