Diciassette anni dopo la destituzione di Alberto Fujimori «per incapacità» morale, il fujimorismo si è lasciato sfuggire la sua rivincita.

CONTRO OGNI PRONOSTICO, il Congresso, pur dominato dalla Fuerza Popular, il partito guidato dalla figlia Keiko, ha respinto la mozione di impeachment nei confronti di Pedro Pablo Kuczynski, accusato di aver nascosto – quando era ministro dell’Economia del presidente Alejandro Toledo (2001-2006) – i servizi di consulenza offerti alla multinazionale brasiliana Odebrecht, tra il 2004 e il 2007, dalla sua impresa Westfield Capital e da un’altra di proprietà del suo socio Gerardo Sepúlveda, la First Capital, in cambio di quasi cinque milioni di dollari. Non solo sono mancati 8 voti degli 87 necessari per porre fine al mandato di Ppk, come viene chiamato Kuczynski, ma, a rendere più amara la sconfitta di Fuerza Popular, le defezioni sono venute proprio dall’astensione di dieci parlamentari fujimoristi, sotto la guida di Kenji Fujimori, il fratello di Keiko, sempre più schierato su una linea di dissidenza nei confronti del partito.

TUTTAVIA, LA CRISI POLITICA peruviana non si chiude qui, andando ben oltre la questione della destituzione o meno di Ppk, rimasto impigliato nell’onnipresente trama di corruzione in cui, a partire da Fujimori, sono caduti uno dopo l’altro tutti i presidenti peruviani, da Toledo ad Alán García fino a Ollanta Humala.

LA PERMANENTE INSTABILITÀ a cui sembra condannato il paese è infatti legata in buon parte alla strategia di un Congresso dominato da una costante vocazione golpista, coltivata da Fuerza Popular – forte della maggioranza assoluta in Parlamento (con 71 seggi su 130) – fin dal momento in cui, al ballottaggio del 2016, Kuczynski ha sconfitto Keiko Fujimori per un pugno di voti.

Da allora, il Congresso non ha perso occasione per destabilizzare il governo, ottenendo la rinuncia di diversi ministri e attirandosi l’accusa di operare «un golpe parlamentare permanente e continuato» per conquistare il potere e impedire le indagini sui casi di corruzione in cui è coinvolta la stessa Keiko (accusata da Marcelo Odebrecht di aver ricevuto da lui un finanziamento per la campagna elettorale del 2011).

NEL TENTATIVO DISPERATO di garantirsi la governabilità, il presidente ha anche provato a ingraziarsi i parlamentari di Fuerza Popular, lasciando aperta la possibilità di un indulto ad Alberto Fujimori, condannato a 25 anni di prigione per il suo coinvolgimento in due stragi compiute dai paramilitari del gruppo Colina in cui morirono 25 persone tra il 1991 e il 1992. Ma, con ciò, Ppk è riuscito solo a inimicarsi quella parte consistente della popolazione che aveva votato per lui giusto per non trovarsi al governo un altro membro della famiglia Fujimori.

ALL’INIZIO DI NOVEMBRE, durante il XVIII Forum Iberoamericano realizzato a Buenos Aires, Kuczynski era tornato a riferirsi al tema dell’indulto definendolo «un tema strettamente medico», ricevendo per questo persino le critiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, convinto che, avendo Fujimori ricevuto una condanna per crimini contro l’umanità, l’opinione della comunità internazionale debba essere tenuta in considerazione. Anche se, forse, è proprio nell’ottica di un negoziato sull’indulto che si può leggere l’astensione di Kenji Fujimori e del suo gruppo.

In questo quadro, si comprende bene il «que se vayan todos» di una popolazione esasperata dalla classe politica, benché incapace di andare oltre la richiesta di nuove elezioni generali, in direzione di un superamento di quel modello neoliberista imposto con il golpe del 1992, quando il presidente Fujimori sciolse il Parlamento controllato dall’opposizione, sospendendo la Costituzione del 1979 e sostituendola l’anno successivo con una Costituzione ad hoc in cui molti ravvisano la radice dei mali attuali del Paese.