È sotto gli occhi di tutti e allo stesso tempo invisibile il banco dei pegni, il luogo scelto dalla regista Irene Dionisio, classe 1986, per osservare la crisi economica e sociale in Le ultime cose, il suo film presentato in concorso alla Settimana della critica e in sala da giovedì 29 settembre. «A Torino sono passata davanti al banco dei pegni tantissime volte, ma solo di recente ho scoperto cosa fosse. Ero legata a una visione romantica, cinematografica di quel posto: l’ultima volta l’avevo visto in L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet», racconta la regista che proprio al Monte di Torino ambienta la sua storia.

Un racconto diviso tra l’interno e l’esterno del banco: dentro, il giovane perito Stefano (Fabrizio Falco), appena assunto, deve imparare il mestiere e fa esperienza del senso di colpa che gli suscita – «è lui l’occhio dello spettatore, per questo ho fatto in modo che la sua evoluzione come personaggio fosse aperta all’interpretazione di chi guarda», dice Dionisio. Fuori invece c’è il sottobosco criminale dei ricettatori, pronti a comprare le polizze dei più disperati .
Le ultime cose è il debutto nel cinema di finzione della documentarista Irene Dionisio, che spiega infatti come in un primo momento avesse pensato di raccontare il mondo che gravita intorno al monte dei pegni attraverso un documentario, che consente una «maggiore libertà e sperimentazione».

Questo però non è stato possibile per motivi di privacy: «Quando ho iniziato a la ricerca sul posto non mi facevano riprendere niente, ho potuto solo scattare qualche foto sotto supervisione costante. Gli impiegati del banco si sono aperti con me quando ho proposto di scrivere ciò che mi dicevano, e da quel momento in poi è emersa la loro voglia di raccontarsi».
Gli oggetti impegnati, riscattati o messa all’asta rimandano al lavoro precedente di Dionisio – il documentario Sponde. Nel sicuro sole del Nord – dove il tunisino Mohsen conserva la memoria di chi è morto in mare tentando la traversata verso l’Italia proprio attraverso gli oggetti riportati dai flutti sul bagnasciuga, a cui lui ha dedicato un museo nel suo giardino.

In «Le ultime cose» come in «Sponde» le cose sono profondamente legate alle persone.
Ho iniziato a lavorare a Sponde nello stesso momento in cui cominciava la ricerca per Le ultime cose, e così è nata la riflessione sugli oggetti. Entrambi i film condividono la stessa radice, si rispecchiano l’uno nell’altro. Il banco dei pegni come la storia di Mohsen e Vincenzo – l’uomo che a Lampedusa si è incaricato della missione di seppellire i cadaveri portati dal mare – consentono uno sguardo «laterale» su una questione storica, umana e sociale enorme. E in entrambi i casi gli oggetti hanno un ruolo importante, anche se in Sponde vengono conservati, hanno un valore evocativo, e in Le ultime cose vengono svenduti, sonomotivo di contesa, un campo di battaglia.

Come è nata l’idea di ambientare un film nel banco dei pegni?
Il processo che mi ci ha portata parte da un mio altro documentario: La fabbrica è piena – Tragicommedia in otto atti, ambientato in una fabbrica abbandonata dove dei signori rumeni sono rimasti fino alla sua demolizione. I miei genitori sono ex operai Fiat, per cui mi sono sempre sentita molto legata al mondo industriale. Il banco dei pegni, come la fabbrica abbandonata, è un luogo che mi ha consentito di raccontare le persone che partecipano alla crisi in modo «collaterale».

Nel film, all’occhio della macchina da presa viene affiancato quello delle telecamere di sorveglianza.
La prima volta che ho visitato il banco di Torino sono rimasta colpita dalle immagini dei video di sorveglianza, che trasmettevano lo stesso tipo di freddezza che emana da quel luogo. Mi interessava accostare la mia prospettiva a quelle immagini distaccate, che apparentemente possono somigliare al mio punto di vista ma sono prive della mia sensibilità.