Le sale della retrospettiva dedicata a Leo McCarey (curata da Roberto Turigliatto) sono sempre piene, non solo la nuova cinefilia che si immerge unicamente nei film del passato ma anche gli affezionati, gli addetti ai lavori, chi la sceglie, come dice un’amica un po’ scherzando un po’ no, come rifugio contro le delusioni della programmazione. I film di McCarey è un evento vederli su grande schermo tutti insieme – pure se la mancanza di sottotitoli in molte copie penalizza le sfumature dell’umorismo – ecco che dunque, un lunedì mattina il Grand Rex, che ne è la sede diviene l’appuntamento obbligato: in programma c’è la serie di corti con Charley Chase (Mum’s the Word; Long Fliv the King; Crazy like a Fox; Bromo and Juliet) tutti del 1926, accompagnati al piano, raffinatissime variazioni sull’amore con molti disastri che sono altrettanti variazioni sulla commedia, sliding doors di porte che si aprono e si chiudono, equivoci pazzi,matrimoni combinati, scherzi contro il governatore repubblicano di turno.

E poi, cosa accade sfuori dal Grand Rex tra le sale e la Piazza Grande funestata dai temporali serali che ieri ha presentato BlacKkKlansman di Spike Lee – Grand Prix premio all’ultimo festival di Cannes? Una magnifica «lezione» di cinema politico Black Panthers (più l’ostinazione del «cambiare dall’interno») nell’America di Trump il film ispirato al libro di Ron Stallworth, in cui l’autore racconta la (propria) storia di giovane african american che nel Colorado del 1972 entra nel bianchissimo distretto di polizia per «agire dall’interno» contro razzismo e violenza diffusa. L’impressione dei primi giorni è che questa edizione manchi un po’ di energia, a parte frammenti (come Menocchio di Fasulo) qua e là; sarà il caldo che allenta la percezione, o il fatto che il direttore, Carlo Chatrian, è già altrove (ieri uno dei giornali ticinesi, «La Regione» pubblicava un commento parecchio antipatico sulla sua figura), nominato alla Berlinale mentre tra gli addetti ai lavori dilaga il giochino del totonomi sul direttore che verrà.

Quando è apparso Homeland (Iraq Year Zero) (2015) di Abbas Fahdel sessantenne regista iracheno si sapeva poco; quel film premiatissimo, adorato dalla critica in tutto il mondo – in Italia era stato presentato in concorso a Filmmaker – racconto della guerra in Iraq attraverso la sua famiglia ne ha affermato la presenza in modo prepotente e con una unicità a cui probabilmente non erano concesse repliche. Vedendo questo suo nuovo Yara, in concorso, le perplessità rispetto a quel precedente lavoro trovano una sorta di chiarimento. L’aspetto su cui il regista sembrava interrogarsi meno in quel film la cui emotività era inevitabile vista la materia, lo stato di guerra fino alla tragedia, la morte in diretta del nipote del regista ucciso dai cecchini, era proprio la sua posizione: in che modo dichiararsi, come essere in quella «ricostruzione»delle esistenze.

Yara è una ragazzina che vive in una vallata tra le montagne, dove lo scopriamo solo alla fine del film (e anche questo non è secondario). La lingua è l’arabo, lei e sua nonna, sono cristiane come ci dicono i ritratti della Madonna al muro e i digiuni per la vergine che la nonna fa. Hanno le capre, qualche gallina, l’orto devastato dai cinghiali, intorno una natura potente per bellezza nella quale il segno umano è sempre più rado. Gli abitanti della valle sono andati via, morti o emigrati, la ragazzina è lì sola, a parte la nonna le sole presenze quotidiane sono l’uomo che porta su la spesa col mulo, e i suoi due bambini, il più grandicello sedotto da lei che gli chiede di spazzolarle i capelli, e un tizio tutto fare che le parla «come un fratello» nell’esercizio del macho che la vorrebbe col matrimonio per chiuderla in casa e coprirla ben bene… 

Di altre ragazze non se ne vedono e nemmeno coetanei finché un ragazzetto arriva lassù sbagliando sentiero, le sorride sfacciato, e le propone di partire con lui per l’Australia… È amore, pudico e adolescente, di lunghe passeggiate tra le vecchie case vuote, il fiume, le cascate, quella natura che sembra quasi volerli proteggere, confidenze, le foto dei genitori morti quando lei era piccola in un incidente, la paura di restare sola nella vallata, le chiacchiere degli uomini, la complicità della nonna. Ciò che c’è oltre il viottolo non lo vediamo mai, Yara non ha il telefonino ma sul tetto della casa c’è una grande antenna parabolica; l’esterno (e molto cittadino) è però la stessa ragazzina sempre impeccabile con smalto (dall’aspetto semi-permanente), shorts, jeans a tubino, magliettine, fasce in testa, scarpe da ginnastica dorate come una adolescente qualsiasi (più che qualsiasi, curatissima con eleganza) che dovrebbero nelle intenzioni del regista provocare una discrepanza rispetto all’immagine di una ragazza nella vallata isolata che il pubblico si aspetta.

Il problema è che questa messinscena non ha mai un momento di verità, non crediamo a nessuno dei personaggi e nemmeno alla loro relazione, tutto suona falso, pretestuoso a cominciare dallo sguardo del regista sulla ragazza, che mette sempre al centro ma a cui non sembra interessato se non per la grazia adolescenziale proprio come gli altri maschi intorno.
Un personaggio femminile (con nome nel titolo) è anche protagonista del film di Kent Jones, Diane. Per carità, i due film non hanno alcun punto in comune, quella di Jones, critico, storico, direttore del New York Film Festival, sceneggiatore (Jimmy P. di Desplechin) ) esprime una scrittura letteraria colta e elegante, che si appoggia a attori splendidi a cominciare dall’attrice che dà vita a Diane, Mary Kay Place (Il grande freddo, 1983), e che in una suggestione autobiografica – l’ ispirazione viene dalle zie del regista – lascia fluire la tradizione letteraria americana di piccoli centri, personaggi un po’ sui bordi della vita, solitudini, abbandoni, ritrovamenti, paesaggi di case sparse lontani dalle metropoli che sono l’America.

Diane è una donna schiacciata dal senso di colpa di un’esistenza intera, la prima ragione è il figlio tossico che sembra godere (ovviamente) a farsi trovare da lei sempre più devastato, e poi l’amata cugina, ricoverata con un cancro terminale, da cui invoca ugualmente un perdono che l’altra a volte le nega. Le amiche sanno ancora ridere e le vogliono bene, sono preziose in quella provincia dove ci si conosce e però si sta anche molto da soli ma lei non riesce a perdonarsi, la sua è quasi un’altra forma di dipendenza, la colpa per un vecchio tradimento, l’amore di un’estate con un ragazzo più giovane, compagno della suddetta cugina, da cui sembra discendere almeno nella testa di Diane ogni catastrofe, per primo lo strafarsi del figlio allora bambino.

Cosa è che cerca Diane? Un’assoluzione? Una sorta di riscatto? Specie poi quando il ragazzo dall’eroina passa all’invasamento religioso, in coppia con una tenera mogliettina anche lei ex-tossica, entrambi salvati dalla chiesa a cui cercano di convertire la madre.
Ci sono cose E molto belle nel film di Kent Jones, soprattutto la capacità di restituire nella sua messinscena un’atmosfera e dei paesaggi cinematografici conosciuti in modo originale attraverso le presenze dei suoi protagonisti, la narrazione di un quotidiano dall’apparenza semplice racchiuso nei gesti e nelle abitudini di quella che è quasi una ritualità della vita che scorre via nel tempo.

E però la sua Diane finisce per esprimere i limiti dello sguardo dell’uomo sulle donne, chiusa nella «colpa» che le caratterizza il corpo, poco curato, la postura, gli abbandoni alcolici ai troppi margarita, la cui unica nota di affermazione è un diario poetico a cui affida i suoi pensieri. Sarebbe bello vedere quando si parla di donne, anche nella dimensione letteraria, qualche zona meno opaca, aspetti segreti, conflittuali, l’immaginazione oltre l’obbligo dell’essere.