Sergio Álvarez ha una voce che ricorda una cantilena triste. Classe 1965, dice di essere «figlio di un fabbricante di chimere e di una maestra di scuola». La sua Colombia è una giostra così violenta e tenera che ti verrebbe da non lasciarla mai e da allontanarti per sempre. Lui stesso vive tra Bogotà e Barcellona.

Non si è mai laureato, ha preferito in quegli anni rifugiarsi nella selva per fare una comune, dove militari e paramilitari gli hanno fatto fare fagotto. Ne è uscito il romanzo La lectora (2001) con cui ha vinto premi e un adattamento televisivo. Dopo dodici anni (e molta scrittura per giornali e sceneggiature) ha dato alle stampe 35 morti, ora tradotto da La Nuova Frontiera (pp. 392, euro 20), che Álvarez presenterà (il 27 marzo, ore 14, Auditorium S.Margherita) a Incroci di Civiltà, il festival di letteratura di Venezia, promosso dall’Università Ca’ Foscari.

In «35 morti» la sua narrazione fluisce come fosse un unico piano sequenza. Come l’ha immaginato?
In un certo senso, la struttura ha lo stesso ritmo dell’America Latina, che sembra sempre andare alla deriva, per poi risorgere. La prosa segue il ritmo di un continente che sta in continua evoluzione. In questo libro racconto trentacinque anni di storia colombiana, fatta di soprusi e di una quantità enorme di violenza. Eppure le persone possiedono una grande forza umana e, nonostante tutto, riescono a tirar fuori la voglia di vivere, di sognare, di difendere la propria dignità. E questo mi sorprende sempre.

Ha raccontato che nelle sue storie i personaggi nascono dalla strada, da quello che ascolta quando si ferma a chiacchierare. Si può parlare di un mix di cronaca e finzione?
Quando vado in Colombia frequento i quartieri più popolari e i personaggi che racconto sono molto simili a me. È gente umile che deve sempre combattere contro qualche potere che la schiaccia. E questo conflitto produce violenza, economica, politica e persino personale. Sono persone che finiscono sempre intrappolate in un uragano dove tentano di sopravvivere, di risalire, di coltivare i propri sogni. E tutti tentano di farlo al meglio, anche se è complicato.

Il registro che usa è molto crudo, ma anche immerso in un’atmosfera quasi magica. Non è realismo magico però…
Il realismo magico è stata una forza letteraria che, in qualche modo, ci ha dato visibilità. Ha attraversato l’America Latina per le coincidenze che portava con sé. Ma si è esaurito. Il nostro presente invece è pieno di narcotraffico, guerre, conflitti non risolti. E oggi abbiamo bisogno di una letteratura che affronti il nuovo.

A volte le cose che agli occhi di noi europei sembrano surreali, in America Latina si vivono come iper-realiste.
Sì, perché è un continente che, nonostante si sia sviluppato così veloce, in realtà è affogato nella stessa diseguaglianza, povertà e violenza di sempre. E quando si perde una qualche forma di identità, tutto si converte in qualcosa di violento. E qui, in questo punto, stasi colloca il mio romanzo.

Spesso ripete che il titolo «35 morti» viene dal fatto che non si contano più gli assassinii e che un numero vale l’altro. È così?
Esatto, possono essere 35 o 35 mila, alla fine è lo stesso. Quando mi chiedono se la violenza sia endemica, rispondo sempre che è la diseguaglianza ad essere endemica. Credo sia impossibile slegare il problema della brutalità da quello dell’ingiustizia. Si vive in un mulinello di ingiustizia e di mancanza di opportunità, che precipitano in fatti violenti. Perché come esseri umani non possiamo smettere di sognare di vivere meglio e si tenta di farlo in tutti i modi possibili.

Che opinione si è fatto del processo di pace in corso all’Avana, tra governo e Farc? Sembra davvero possibile che i colloqui abbiano successo?
Era necessario e credo andrà bene. Inevitabile sedersi e parlarsi, meglio che continuare a spararsi, no? Il mio dubbio è: quanta violenza, anche dopo quell’accordo, si riuscirà a eliminare in Colombia? Perché la sfida è quanto la Colombia sarà capace di essere un paese meno diseguale, con una vera riforma agraria e una giustizia vera. E poi si dovrà affrontare il problema del narcotraffico, che non è nazionale, ma internazionale. Ancora: quale sarà la posizione del paese nel mondo, con tutte le sue materie prime e le attività legali e illegali delle imprese straniere che le sfruttano. Mi sembra che tutto questo non sia ben chiaro in Colombia. È giusto risolvere il conflitto con le Farc, ma resteranno aperte le altre questioni. E sappiamo che la violenza è capace di rigenerarsi, finita una ne prenderà il posto un’altra».

Eppure la Colombia oggi sta vivendo un grande fermento. Crede sia in atto una trasformazione vera del paese?
È qualcosa che corre su più piani. È vero che c’è un processo di sviluppo, come d’altra parte in tutta l’America Latina, grazie anche a una migliore educazione e alle opportunità di muoversi nel mondo. Certo, rispetto a venti o trent’anni fa Colombia è davvero cambiata. Ma non sottovaluto il fatto che molto di questo sia un’immagine venduta all’estero, una grande operazione di maquillage, di marketing, per attirare investimenti e affari. Mi ricorda la Spagna tra gli anni Novanta e Duemila: sembrava un modello, moderna, veloce, la settima potenza al mondo e poi è bastato un attimo ed è caduta. La Colombia ha grandi potenzialità ed è diventato un paese di moda. Ma chiunque lo attraversi può coglierne tutte le contraddizioni.

Lei appunto vive da molti anni in Spagna. Non sente nostalgia per il suo paese? Non avrebbe voglia di tornarci?
Ci ho passato molto tempo e ci torno. Ma ogni volta che torno ho la sensazione che sia un paese-popcorn. Sì, succedono molte cose, ma alla fine ci si rende conto che sono gli stessi popcorn che scoppiettano sulla padella. Quando arrivi, pensi: che meraviglia. Ma via via diventa asfissiante. Quando vivi là sei immerso in quella realtà e non te ne rendi conto. Ma vista con altri occhi, ti può soffocare.

Sono passati dodici anni dalla pubblicazione del suo ultimo libro. Dobbiamo aspettarne altri dodici ora?
Sono successe molte cose. È dipeso da fattori personali, professionali, ma soprattutto perché è un libro che con calma ha incontrato il suo cammino. Tutti vorrebbero che si pubblicasse un libro ogni anno, tutti esigono che tu sia veloce. Ma questo mi terrorizza, va contro la mia natura. Il mercato impone sempre questa iper-esigenza di creare, ma per me non è così. E 35 morti ha via via assunto un suo potere e una sua credibilità proprio perché ha preso vita lungo un arco di dodici anni.