Disse un maestro che l’etica è nient’altro che il nome privato della politica. Questo è vero in senso sia soggettivo sia oggettivo, stando alla eredità greco-latina: se infatti l’ethos dei greci è il comportamento (la sua coerenza, la sua aggettante nudità, senza iato tra il dire e il fare), già il latino mos rinvia al costume e dunque a una tradizione iscritta nel senso comune (e si pensi al mos maiorum dove si cristallizza l’ordine più arcaico e intangibile della romanità). In ogni caso sulla diffrazione tra il significato e il valore dell’agire individuale e quelli della decisione e della azione collettiva si fonda da Machiavelli in avanti, tutti lo sappiamo, l’autonomia del politico. Ovvio, altrettanto, che laddove ogni legame sociale sia spezzato e ogni prospettiva di azione impedita o negata, l’etica subentri annunciandosi come l’unica parte visibile e praticabile. Perché di etica può vivere soltanto un presente rescisso dalla politica, l’insieme degli individui sottratti al legame sociale, di classe.

La cosiddetta «fine della storia» di cui ci si compiacque al declinare della Guerra fredda è probabile non si augurasse altro se non l’eternità dell’atomismo sociale, con la sopravvivenza di individui che fossero tali fino in fondo, appena degli esemplari umani. Nell’antichità, all’esaltazione dell’uomo etico (non necessariamente un vincitore ma spesso uno sconfitto, un reduce) corrispondeva un genere letterario la cui retorica era codificata nella «etopea». E a un presente disertato dalla politica affida oggi la sua corona di etopee Tzevan Todorov, linguista e storico delle idee, bulgaro di origine e francese di adozione, intellettuale di rango internazionale e di pluridecennale bibliografia, il quale firma Resistenti Storie di donne e di uomini che hanno lottato per la giustizia (traduzione di Elena Lana, Garzanti, pp. 221, euro 17.00).

Sono in tutto otto ritratti, veri e propri medaglioni di quanti hanno testimoniato dignità e coerenza sotto i regimi totalitari (il nazismo, lo stalinismo) o di oppositori di regimi più recenti ma comunque caratterizzati dalla disumanizzazione dei cittadini ridotti a schiavi o a sudditi passivi. Scrive Todorov: «Di fronte all’ingiustizia, all’oppressione, al terrore, queste persone si oppongono senza ricorrere ad altrettanta violenza, senza rispondere al male con il male, ma spostando lo scontro su un altro terreno. In questo modo, sfuggono al manicheismo e al conflitto violento, al desiderio di annientare l’avversario: tentano anche di andare oltre l’imitazione degli altri e la rivalità nei loro confronti». Costoro si chiamano Etty Hillesum, Germaine Tillion, Boris Pasternak, Aleksandr Solzenicyn, Nelson Mandela e Malcom X (cui si aggiungono, nell’ultimo capitolo, con una concessione forse troppo azzardata al presente, David Shulman e Edward Snowden).
Qui va detto subito che le etopee di Todorov sono ricognizioni svelte e riassuntive, stese con limpidezza, con spirito partecipe, ma mostrano una caratura complessiva che non le distingue troppo da accurate sinossi.

Vi si evocano figure conclamate, notorie anche per il pubblico italiano a eccezione forse di Germaine Tillion, l’etnologa che entrò nella Resistenza, fu deportata e nel dopoguerra non esitò a impegnarsi in prima persona, con lucidità ed equanimità, nel conflitto che divideva la Francia tra pieds noirs e militanti del Fronte di liberazione algerino (come si può evincere dal bel volume complessivo Alla ricerca del vero e del giusto, a cura dello stesso Todorov, pubblicato in Italia da Medusa nel 2006). Ma che cosa tiene insieme, agli occhi dell’autore, fisionomie così ineluttabilmente differenti e così dislocate nello spazio e nel tempo? Che cosa ha da spartire Etty Hillesum, dolce e sororale nelle sue estreme lettere dal campo di Westerbork, con Malcolm X, l’ex militante del Black Muslims convertitosi in punto di morte al credo di una fraternità misericorde?

Insomma, che cosa lega Nelson Mandela, la sua implacabile e astuta solarità, alla durezza cupa di chi invece scrisse Una giornata di Ivan Denisovic? Stralciando da biografie molto complesse e talora contraddittorie (è il caso di Solzenicyn ma anche di Pasternak) Todorov opera una reductio ad unum e risponde additando un valore, la compassione, che si coniuga all’assenza di risentimento: Etty, che in campo di sterminio si colpevolizza per il fatto di odiare i nazisti in quanto tedeschi, è simile a Mandela che teme e di fatto impedisce la vendetta dei neri sui bianchi non appena redento il Sudafrica.
Per Todorov, essenziale è in tutti costoro l’assenza di risentimento o ciò che banalmente si chiama rendere il colpo: la magnanimità equivale per lui a una forma superiore, e necessariamente inattiva, del comprendere l’alterità nemica. Lo chiama più volte il rifiuto della logica che, nel conflitto, richiama le parti in causa quali «nemici complementari».

Benissimo, questa è una aperta rivendicazione dell’Illuminismo, peraltro già avanzata più volte nei recenti contributi di Todorov, da Lo spirito dell’Illuminismo (2007) a Gli altri vivono in noi e noi viviamo in loro (2011) cui si aggiunge una appassionata difesa del multiculturalismo. Ed è rivelatrice, al riguardo, la nota che l’autore aggiunge quando Resistenti è in bozze, all’indomani della strage nella redazione di «Charlie Hebdo», dove si legge: «Gli attentati di Parigi hanno messo in luce un conflitto in atto tra numerosi paesi occidentali (nordamericani o europei) e individui emigrati dai propri paesi d’origine, oppure tra due segmenti di popolazione nei paesi occidentali. Certo, non possiamo meccanicamente applicare ai conflitti dei giorni nostri una lezione ricavata dal passato: tuttavia confrontarci con esso aiuta a riflettere sul presente».
Todorov sa a memoria quello di cui sta parlando proprio perché è stato il giovane in fuga dalla Bulgaria stalinista, poi l’allievo di Roland Barthes e lo studioso dei formalisti russi, quindi, grazie alla lezione di Bachtin, il grande intellettuale che a partire dal suo medesimo vissuto ha tradotto la dialettica della alterità nel capolavoro intitolato La conquista dell’America. Il problema dell’altro (1984). Infatti ogni pagina dei Resistenti, ogni suo esercizio di ammirazione, tradisce il terrore che il risentimento, la logica dei nemici complementari (i soldati o i droni contro le stragi, un qualche Patriot Act contro i tagliagole dell’Isis) rendano permanente quel che una sinistra e bugiarda metafora chiama oggi conflitto di civiltà. E tuttavia è come se Todorov, richiamando il credo dell’Illuminismo (e del multiculturalismo che ne consegue), ne scontasse subito e inopinatamente la dialettica. Certo, gli esempi di Mandela, di Germaine Tllion, della dolcissima Etty Hillesum sono ben degni di una accorata etopea come figure esemplari per cui non si ha vergogna a pronunciare la parola «eroi»: giusto è additarne l’esempio, onorarne la figura di testimoni e perciò di martiri, cioè di esseri tanto magnanimi da poter comprendere, alla lettera, la più nemica alterità. Ma comprendere per fare cosa? E con chi? E in che modo? Tutto lascia pensare, leggendo Resistenti, che il deserto della politica sia paradossalmente lo spazio in cui possano meglio rifulgere, qui-e-ora, le icone evocate da Todorov. Anche per questo è maledetto ogni paese che ha bisogno di eroi.