L’umore positivo emerso lunedì sera è stato scacciato da una nuova doccia fredda per gli operai della Pernigotti. Grande è, infatti, la confusione sotto il cielo di Novi Ligure, storico distretto del cioccolato italiano. La proprietà turca dei fratelli Toksöz non recede: «Né il marchio né la società sono, allo stato attuale, in vendita», ha dichiarato in una nota dopo l’incontro del 26 novembre con il premier Conte e il ministro dello Sviluppo economico Di Maio.

A colloquio con il governo la proprietà «ha confermato la decisione di cessare la conduzione in proprio delle attività produttive presso il sito di Novi e l’intenzione di terziarizzare in Italia la produzione, preferibilmente individuando partner industriali interessati all’acquisizione o alla gestione degli asset produttivi, nel tentativo di ricollocare il maggior numero possibile di lavoratori».

Eppure, le voci giunte all’assemblea permanente di viale Rimembranza, dove i lavoratori sono in presidio dal 6 novembre scorso, sembravano ottimistiche lunedì sera. «Ci era stato riportato che nel corso del tavolo era emersa la possibilità di cassa integrazione per reindustrializzazione, nonché l’ipotesi che fossero venduti azienda e marchio, magari alla Sperlari, l’opzione considerata più verosimile», sottolinea Marco Malpassi, segretario provinciale della Flai Cgil di Alessandria. Alla conclusione del vertice, una nota del governo aveva fatto intendere che ci fosse un inedito spiraglio nella trattativa, spiegando che la proprietà aveva accolto le richieste dell’esecutivo di sospendere la procedura di cessazione, seppure temporaneamente, fino al 31 dicembre, «per poter lavorare sulla reindustrializzazione del sito attraverso la nomina di un soggetto terzo che verifichi, analizzi e valuti le opportunità produttive».

Le dichiarazioni di ieri da parte dell’azienda sono state di altro tono, lontanissime dal piano di reindustrializzione su cui puntano i sindacati. «Hanno congelato la situazione fino alla fine dell’anno, non facendo intendere – aggiunge Malpassi – quale ammortizzatore sociale vogliano utilizzare. La nostra posizione rimane la stessa, ovvero costringere l’azienda ad aprire alla cassa per reindustrializzazione, non vogliamo rassegnarci all’idea che lo stabilimento di Novi possa chiudere e le produzioni italiane terziarizzate. Sarebbe la fine dei diritti dei lavoratori e della qualità del prodotto».

La situazione è drammatica, ne sono coinvolti oltre 200 lavoratori: 100 dipendenti diretti e circa 130 interinali. Non abbandonano il presidio e pensano che l’ipotesi terziarizzazione sia solo un escamotage per aggirare la norma anti delocalizzazioni del decreto dignità. La Turchia è il maggior produttore mondiale di nocciole e sono in aumento quelle che l’Italia, secondo produttore al mondo, importa da Ankara.

Negli anni in Turchia sono aumentati gli stabilimenti dolciari e la mossa dei Toksöz potrebbe far parte di questa logica di espansione. La proprietà, infatti, marcia dritta, incurante delle richieste delle tute blu: non molla il marchio e dice di voler individuare nuovi partner. A tal proposito l’azienda «ha richiesto il supporto del governo affinché favorisca la cessazione del blocco dello stabilimento al solo fine di consentire ai soggetti potenzialmente interessati di prendere visione degli asset e formulare proposte concrete di acquisizione del polo industriale o di utilizzo in toto o in parte delle sue linee produttive, nell’esclusivo interesse dei lavoratori stessi».

Il vicepremier Di Maio è intervenuto su Facebook: «Presto andrò a trovare i lavoratori a Novi Ligure e lì faremo un nuovo tavolo per capire a che punto siamo e delineare una strada che garantisca la dignità dei lavoratori e anche dello storico marchio». E ha promesso: «Lavoriamo a una legge che vincoli i marchi storici italiani e le loro produzioni ai territori ai quali appartengono».