Quest’anno ricorre il tragico ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali da parte della dittatura fascista. Fu il momento più ignobile della storia istituzionale dell’Italia unita, il momento di massima adesione all’ideologia nazista, preparato da una propaganda pseudo-scientifica, divulgata nella rivista che si intitolava «La difesa della razza».
Da allora, la parola razza non è più una parola neutra. Evoca il genocidio perpetrato dal nazi-fascismo, il ripudio dell’identità umana, dietro le vesti della pretesa identità razziale. Gli atti dell’Assemblea costituente testimoniano le lunghe discussioni per la stesura dell’art. 3, circa l’opportunità di inserire quel termine nella Carta: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Alla fine si decise di tenerlo, con la motivazione che non si poteva tacere quel presunto tratto identitario che era costato la vita a tanti: bisognava esplicitamente negarlo, nominarlo per cancellarlo dall’uso comune. E tuttavia, le cronache della campagna elettorale hanno diffuso nei giorni scorsi l’espressione di uno dei candidati alla presidenza della più grande e ricca regione italiana: di fronte alla migrazione, «dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere». La difesa della razza, appunto.

Tutte le parole hanno un peso, questa più di tante altre: è una parola-simbolo delle tragedie del Novecento, il suo rifiuto deve essere alla base della condivisione repubblicana. Ma oltre a queste considerazioni, vi è un aspetto propriamente linguistico che credo necessario sottolineare.
L’origine del termine razza è stata a lungo incerta, e discussa tra illustri studiosi. Fino agli anni Cinquanta prevaleva l’ipotesi che derivasse dal latino ratio, quanto di più nobile e proprio della natura umana. Leo Spitzer, ebreo viennese che nel 1933 espatriò dalla Germania nazista, sostenne quella tesi: «fu per me un piacere pieno di malizia presentare alla Germania l’idea che la parola che veniva usata in contrapposizione a ’spirito’ vanta così un’origine altamente spirituale».

Ma Gianfranco Contini nel 1959 capovolse la prospettiva, dimostrando che l’origine era tutt’altra. Razza ha le sue prime attestazioni in italiano antico, da cui si diffonde a tutte le lingue europee, ed è una trasformazione medievale dell’antico francese haraz, che indica un allevamento di cavalli, una mandria, un branco. Per una delle più vistose parole-simbolo in nome delle quali si era prodotta l’abiezione della ragione veniva così riconosciuta «una nascita zoologica, veterinaria, equina» (Contini). Un caso formidabile in cui la scoperta dell’origine di una parola può cambiarne la percezione e l’uso, può determinare la sua trasformazione da nobile segno di eccellenza e di distinzione a specifico marchio di bestialità.
Successivi studi hanno confermato la tesi, e l’ultima conferma la offre infine oggi il Tesoro della lingua italiana delle origini, elaborato dall’Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano, che ha aggiunto altri esempi duecenteschi e ha documentato l’uso estensivo alle proprietà di una categoria umana solo nella seconda metà del Trecento. La documentazione antica, che attesta la continuità e la trasformazione semantica del termine, non lascia dubbi.

Ancora oggi però il Trésor de la langue française e l’Oxford English Dictionary, pur riconoscendo la derivazione di race dall’italiano razza, non registrano l’etimologia indicata da Contini. Eppure da decenni la parola razza, marchiata a fuoco dalla peggiore ignominia della storia del Novecento, può e deve essere intesa alla luce del suo significato originario, e dovrebbe essere usata solo per definire un’identità non umana.
Nel 1959, quando Contini pubblicò la sua ricerca, un quotidiano nazionale si rifiutò di darne notizia. Nell’Italia e nell’Europa di oggi, cinquant’anni dopo, così diverse da quelle di allora, c’è ancora bisogno di diffondere, anche sul piano strettamente linguistico, la consapevolezza di quell’aberrazione

*Direttore Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano