Sulla recente manovra del governo la generalità dei giudizi mette l’accento sul suo carattere mediatorio, poco incisivo, di sostanziale galleggiamento. Non è colpa di Letta; che, anzi, data la situazione si muove con abilità, buonsenso; intuendo alcuni capitoli da affrontare, salvo poi non avere le risorse e il consenso politico per portarli avanti fino in fondo.

Il fatto vero, non mi stancherò mai di ripeterlo, è che l’Italia sta precipitando nel baratro; che per risollevarla occorrerebbero riforme coraggiose e durissime; che tentarle è impossibile con una coalizione di larghe (piccole!) intese, che ha una base di legittimazione (senza Berlusconi) attorno al 25% dell’elettorato avente diritto al voto; che occorrerebbe dunque, fatta la legge elettorale, andare al voto, sperando di insediare una guida della nazione libera, coraggiosa, legittimata. Insomma, quello che oggi può sembrare un benefico moderatismo è il massimo dell’avventurismo.

La situazione macroeconomica del paese, infatti, non mostra cenni apprezzabili di miglioramento. Il debito pubblico incombe. Ed è impensabile un rientro adeguato del deficit entro il 2017. Questo imporrebbe una crescita di almeno l’1,5% all’anno per i prossimi 4 anni; dato mai raggiunto dall’entrata in vigore dell’euro. Se il ritmo di crescita fosse dell’1%, risultato non scontato, il deficit galleggerebbe comunque oltre il 2% annuo, portando il debito nel 2017 ad un livello superiore al 140%. La situazione finanziaria rimane gestibile solo grazie al supporto ad oltranza della Bce. Ma questi aiuti non sono a costo zero ed implicano una sostanziale nazionalizzazione del debito pubblico. Processo che nel 2011-2012 è stato catastrofico: all’inizio del 2011 il debito era per il 50% nelle mani degli investitori nazionali; oggi siamo saliti a circa il 65%. Se va avanti questa tendenza, si avrebbe uno sganciamento progressivo dei paesi europei forti dal debito italiano; si avrebbe una sorta di manovra di contenimento; di “cordone sanitario” nei nostri confronti e un’eventuale necessaria ristrutturazione forzata del debito peserebbe solo sul nostro sistema bancario, e non su quello comunitario; colpendo drammaticamente la vita dei cittadini italiani. A quel punto l’euro potrebbe tenere e non sarebbe nemmeno inevitabile l’abbandono dell’euro da parte dell’Italia.

Sono scenari irrealistici o troppo pessimistici? Non credo. Sono le cifre che parlano da sole. Ed è una strategia già messa in atto dall’Eurosistema nei confronti della Grecia; alla quale la Troika europea ha concesso finanziamenti ponte a tassi proibitivi, imponendo manovre spietatamente recessive attuate da governi compiacenti, solo per consentire alle banche greche di assorbire quanto più debito possibile, mentre esso progressivamente veniva smobilizzato dalle banche francesi e tedesche. Solo a nazionalizzazione avvenuta, la Troika si è “accorta” che una ristrutturazione del debito era inevitabile. L’euro ha tenuto e il debito è stato ridotto. Peccato che l’operazione ha lasciato l’economia greca morente. Nonostante la ripresina europea, il Pil greco subirà una contrazione ulteriore del 4% e si è tornati ai livelli del rapporto debito/Pil simili a quelli della fase in cui è stata effettuata la ristrutturazione del debito. In sostanza: lo sforzo e le sofferenze umane sono stati già vanificati.

È evidente, che per chi nelle burocrazie europee punta su questo processo di “messa in quarantena” anche per l’Italia, c’è bisogno di tempo. Più grande è il debito, più tempo ci vuole. Tempo durante il quale occorre tranquillizzare i mercati nel breve periodo, assumere provvedimenti di austerity, anche se deprimono ulteriormente l’economia, garantire gli investitori esteri nel breve termine. Per questo per quelle burocrazie è auspicabile un governo amico ma sostanzialmente debole, minato nella sua autorevolezza, destinato a navigare a vista. Appunto: le larghe intese, assunte come strategia di lungo periodo, invece che come soluzione di emergenza per tornare a votare con una nuova legge elettorale.

La verità è che occorrerebbe il coraggio di assumere per intero la drammaticità del passaggio che sta dinnanzi a noi. Non per cercare le solite vie consolatorie, o per non pagare i prezzi salati che i vizi del passato ci consegnano. Ma per imporre uno sforzo eccezionale (a partire da chi ha di più) che abbia un senso, un ritorno economico, sociale e democratico, legato a una nuova guida nazionale credibile e di speranza.

I tempi contano. Se, infatti, a cavallo tra il 2011 e il 2012 Monti riuscì a minacciare credibilmente i burocrati di Bruxelles e della Bce, probabilmente anche paventando un’uscita dall’euro che avrebbe inevitabilmente mandato in frantumi tutto l’Eurosistema, già nel 2014 Letta non avrebbe la sua stessa posizione di forza. Le nostre difficoltà sarebbero quasi del tutto circoscritte dentro i nostri confini.

La partita si gioca nei prossimi mesi: puntare i piedi dove è necessario, invertire la rotta, combattere per un’Europa politica unita e rappresentativa dei cittadini. Se le cose, invece, continueranno a rotolare e noi stessi dovessimo continuare a occuparci principalmente della sorte di Berlusconi e di come limitare i danni che egli può arrecare alla Repubblica, nella dura realtà dei fatti la “grecizzazione” dell’economia italiana andrebbe avanti per forza d’inerzia con ripercussioni devastanti sulla produzione e l’occupazione e con la rabbia crescente per un’intera classe dirigente che non ha fatto valere un paese che per esportazione è secondo in Europa dopo la Germania, che ha una rete di piccole e medie imprese che non ha eguali nel mondo, che ha un risparmio nazionale pari a 4000 miliardi di euro, che ancora lo tiene in piedi nonostante lo sfruttamento selvaggio da parte delle banche straniere, libere di agire per l’assenza di adeguati presidi di trasparenza sui rischi, in mancanza di un’assunzione piena degli scenari probabilistici che darebbero una base scientifica e oggettiva sulle scelte da compiere.