«Ci vuole coraggio per rischiare e questo l’ho sempre fatto». Comincia così la nostra conversazione con Ida Di Benedetto, tosta e senza filtri: «Vengo spesso considerata come una persona faticosa, perché sono testarda, ma soprattutto sincera e quindi “pericolosa”», prosegue, «Poi, chiaramente, te la fanno pagare cara perché non devi osare, ma mediare. Nonostante abbia avuto una carriera fortunata, grazie a incontri con artisti “veri”, mi sono imbattuta in diverse difficoltà».
Protagonista indiscussa dei «regni» partenopei creati da Schroeter e Piscicelli (e non solo), la ritroviamo ospite dell’ultima giornata di Todi Festival, arrivato alla 34ª edizione. Domani – domenica 6 settembre, ore 18, al Teatro Comunale -, l’attrice debutterà con L’amore indagato, reading teatrale in omaggio a Raffaele La Capria, per la regia di Pierpaolo Sepe.

Ida Di Benedetto, cosa può raccontarci di questo progetto?
È tratto da un libro dello stesso La Capria, L’amorosa inchiesta, composto da tre lettere: una rivolta a Elène, il primo amore; una alla figlia; una al padre morto. Io leggerò la prima e, nonostante sia ambientata all’epoca degli anni ’30, è rimasta estremamente attuale, come i sentimenti immutati di due adolescenti che si cercano. Il potere di questo teatro «privato» sta nel fatto che il pubblico possa goderne mentre prende forma, parola dopo parola. La Capria è una vecchia conoscenza. Fin dai miei esordi al cinema, quando «rubacchiavo» dai giornali alcune sue espressioni come «la bella giornata», seguivo le sue pubblicazioni sui quotidiani, le ritagliavo con grande cura e rara ammirazione. Ho sempre avuto un debole per scrittori e drammaturghi, mano a mano che leggevo i loro lavori, me ne innamoravo.

Sul palco affiancherà sua figlia, Marta Bifano, che leggerà guarda caso proprio la seconda lettera. A tal proposito, anagraficamente vi dividono pochissimi anni di età.
La mia non è stata una vita facile perché, avendo avuto Marta a 17 anni e Stefania poco dopo, ho cominciato tutto con questo baraccone appresso: due figlie piccole, un matrimonio andato a rotoli e mi sono ritrovata di colpo come capofamiglia. Però, la passione per il teatro e per il cinema ti fa fare cose incredibili, a volte guardo indietro e mi dico: «Davvero ho fatto questo?». È la passione che vince, non il denaro! Non ho mai avuto sete di accumulazione, non me ne frega niente. Resto appagata solo nelle opere, quelle in cui posso – e ho potuto – essere creativa. La cosa importante è che le persone di grande spessore artistico, che conosco e ammiro, continuino a darmi la forza per proseguire. Se non hai la forza, sei finito. Come il povero Memè Perlini, che era un grande poeta del teatro. Nessuno l’ha voluto far lavorare. Porte in faccia. E si è suicidato per depressione, buttandosi dalla finestra del suo appartamento.

Werner Schroeter e Salvatore Piscicelli sono stati i primi a darle risalto al cinema con ruoli che, in parte, si sono discostati dalla «napoletanità» canonica di quegli anni.
Quando lavoravo con Schroeter mi chiamavano «la napoletana che viene da Berlino», era innamorato di me e infatti girammo assieme tre film. Il primo, Nel regno di Napoli, fu presentato a molti festival e ricevetti tanti elogi, pensare che la mia era solo una partecipazione! Invece, quando uscì il primo film di Piscicelli, Immacolata e Concetta, l’altra gelosia, venne descritto come un mélo intellettuale napoletano dai rimandi fassbinderiani. Piscicelli prese spunto da un fatto di cronaca che lesse su un quotidiano. Una volta eravamo a una proiezione in Francia e con noi c’era Marco Ferreri che, dopo aver visto il film, mi battezzò pubblicamente come «Anna», ovvero Anna Magnani. «Lasciamo stare gli attori inarrivabili», gli dissi. E poi, tutte le volte che un’attrice napoletana debuttava, veniva sempre etichettata come «nuova Magnani».

La lavorazione di «Immacolata e Concetta, l’altra gelosia», stando a quanto dichiarato da Piscicelli, fu abbastanza travagliata. E con la coprotagonista, Marcella Michelangeli, ci furono diversi attriti…
Lo realizzò Enzo Porcelli, con tanto coraggio e senza una lira. È un produttore che ha sempre amato film importanti e culturali. Con Marcella Michelangeli, invece, non furono questioni di bassa lega, non c’entravano invidie personali. Era sofferente perché aveva una dipendenza mortale, bisognava avere grande pazienza, infatti il set risultò difficile anche per questa situazione. Fu una scelta di Piscicelli di scritturarla, si innamorò del suo viso espressivo di donna dolente.

Qualche anno dopo partecipò a «L’inceneritore», di Pier Francesco Boscaro degli Ambrosi, rimasto irreperibile per tanto tempo, preceduto dalla fama di film «fantasma» e «maledetto».
Fu realizzato a Padova e c’era il magnifico Flavio Bucci. Pier Francesco, che aveva deciso di autoprodursi il film, fu carinissimo. Girammo questo lavoro con grande allegria, tanto che mi fidanzai con lo scenografo, era così bello (ride, nda). Poi, però, la cosa drammatica fu la distribuzione: diversi anni dopo, il regista si arrampicò sul cornicione del Colosseo e cominciò a urlare: «Cerco un distributore per il mio film. Se non lo trovo, mi butto di sotto!». Quello che ha potuto fare è stato inaudito. Ogni tanto passava da Roma, una volta venne a trovarmi e mi regalò un bellissimo vaso di cristallo. Poco tempo fa, facendo un trasloco… Pam! Si è rotto, purtroppo. Valeva la pena che non sparisse per tanto tempo, Pier Francesco poteva andare avanti, ma l’hanno bloccato…

Con Carlo Lizzani, dopo il successo di «Fontamara», girò «Mamma Ebe»…
Faccio una delle adepte di Mamma Ebe, lesbica e innamorata di Stefania Sandrelli. È un film d’interpreti, tranne per l’attrice che impersona Mamma Ebe (ride, nda), Berta Domínguez. Era sposata con Alexander Salkind, produttore di grandi film come Superman con Christopher Reeve. Giovanni Di Clemente conobbe Salkind e quest’ultimo gli propose di entrare nella produzione del film in cambio di inserire la moglie nel cast, disperato perché lei aveva problemi di alcolismo. Si è però cercato di farla vedere il meno possibile, di creare un gioco narrativo in modo che venisse sopraffatta dai racconti delle altre attrici.

I ruoli che ricopre, spesso e volentieri, sono aggressivi, scostanti, a volte conditi con una punta di follia. Come Sandra, moglie mitomane di Angelo Infanti in «Sogni e bisogni» di Sergio Citti o Maria Celeste in «Leone nel basilico» di Leone Pompucci.
Pensi che una volta scritta la sceneggiatura, Citti la modificò. Mi disse: «Se ho te davanti, con la tua figura, come faccio a farti fare la moglie sottomessa? Cambio!». Non posso fare il personaggio di donna passiva che subisce. Oppure sì, posso anche subire, poi però devo riscattarmi, devo reagire. Leone nel basilico ottenne diversi premi; una volta, dopo la vittoria al Foggia Film Festival, Pompucci mi disse: «Il film ha vinto e tu pure come migliore attrice… Peccato che abbia tagliato tutti i tuoi primi piani, li rimetterò». È un artista che ha tanto talento, ma è parecchio difficile lavorare con lui.

Come coproduttrice partecipò alla realizzazione di «L’educazione fisica delle fanciulle», con protagonista Jacqueline Bisset. Perché non funzionò?
Ha avuto una distribuzione molto scarsa, non fu lanciato come si doveva. Nasce da una revisione di sceneggiatura di Alberto Lattuada, suo sogno nel cassetto, tratta dal racconto Mine-Haha di Frank Wedekind. Quando il film andò a Venezia (presentato fuori concorso alla Mostra del 2005, nda) ci furono recensioni divise. Ad alcuni piacque, altri lo trovarono non sufficientemente «forte». Lo proposi a diversi registi italiani, ma declinarono l’offerta. Alla fine lo diresse John Irvin, che aveva lavorato con Vanessa Redgrave e Jeremy Irons. Oggi, in Italia, non esiste che un produttore si innamori di una storia creata da terzi e la proponga a un regista. Adesso i cineasti oltre a dirigere, scrivono loro stessi i soggetti. Molti, però, cadono proprio sulla scrittura.

Circa 35 anni fa disse che il sistema italiano non creava «interpreti», ma «divi provvisori» destinati a carriere fatue. Oggi come la vede?
Lungo gli anni qualcosa è peggiorato e qualcosa è migliorato. Ammiro molto, di attori di questa generazione e della precedente, Elio Germano e Luca Marinelli. Quest’ultimo porta in sé una follia scomposta, inquietante come una maschera. Entrambi sono speciali. Non voglio denigrare l’Italia, sia ben chiaro. Denigro un sistema corrotto che avvilisce i giovani e non gli permette di emergere.