Se nemmeno Plutarco fu capace di dedicare a Pericle una biografia davvero riuscita, vuol dire che il personaggio pone un problema ben serio. Questa osservazione di Paul Cartledge introduce naturalmente un libro su Pericle: Vincent Azoulay, Pericle La democrazia ateniese alla prova di un grand’uomo (Einaudi «La Biblioteca», traduzione di Cristina Spinoglio, pp. XIV – 306, € 30,00). Un libro da leggere senz’altro, superando qualche svista dell’editing, che costringe il lettore a divinare chi fossero gli «archeonti», gli «statichi» e i «samesi», e che gli fa trovare nella bibliografia, scritta per il pubblico francese ma non ri-orientata per il lettore italiano, edizioni francesi di libri inglesi disponibili in italiano presso Einaudi (per fortuna, il pedante è specie in rapida e provvidenziale estinzione).
L’attenzione per Sparta
Il problema posto da una biografia di Pericle è presto detto: mentre i contemporanei non concepiscono la democrazia ateniese senza Pericle, gli antichi non videro unanimi in lui la personalità eminente che aveva informato di sé una grande epoca della storia umana. Il «mito» di Pericle, il mito dello statista che avrebbe pronunciato le immortali parole sulla democrazia declamate in anni recenti da interpreti ispirati, è recente, e il libro lo mostra assai bene. Fino al Settecento era stata piuttosto Sparta ad attirare l’attenzione dei pensatori politici, come modello di stato e di società, e comunque la ricerca di paralleli con i monarchi assoluti indirizzava verso altre figure, non a Pericle. Il vero interesse per lui si manifesta nell’età di Voltaire, e viene consacrato nel XIX secolo. A partire soprattutto da famose pagine di Tucidide, il Pericle moderno è il precipitato dallo studio storico e archeologico della Grecia antica, dall’interesse per la moderna democrazia, e da una rilevante dose di mitizzazione. Stupisce di meno allora scoprire che già nella tradizione antica il ruolo di questo politico ateniese è meno vistoso di quanto ci si aspetterebbe (Cornelio Nepote non ne scrisse la biografia), e che su di lui furono espressi giudizi anche assai aspri. Per lungo tempo ha pesato sul personaggio la condanna influente espressa da Platone nel Gorgia. Dove si argomenta a lungo, e con efficacia, che i grandi leader della democrazia, Cimone, Milziade, Temistocle e appunto Pericle, non avevano reso migliori con il proprio governo gli Ateniesi, anzi li avevano corrotti, rendendoli dipendenti dai sussidi pubblici.
Dunque, già dalle fonti antiche emerge di Pericle un ritratto bifronte: che ha trovato puntuale riscontro nei giudizi moderni, divisi tra ammiratori e critici. Azoulay procede nella sua riflessione, libero dai miti democratici come dalle critiche anacronistiche, cercando di evitare sia l’idealizzazione del personaggio sia la totale relativizzazione. Poiché le fonti documentarie e archeologiche sono scarsissime, l’indagine è soprattutto storiografica, alle prese cioè con l’affidabilità delle fonti. L’analisi riguarda Tucidide, altri storici frammentari, Plutarco, i giudizi espressi da vari autori classici anche a lunga distanza dall’epoca di Pericle, ma i risultati mantengono margini di incertezza notevole.
Dopo aver studiato nei limiti del possibile l’ambiente di provenienza, la famiglia e la giovinezza di Pericle, Azoulay entra nel decisivo periodo del primato politico. Ne risalta l’eccezionalità del favore di cui lo statista godette in città: venne rieletto stratego per quindici volte. Sulla scorta delle indicazioni antiche è possibile individuare un fondamento di tale successo nel controllo della parola pubblica, e nella straordinaria abilità oratoria (anche gli italiani sanno bene come vanno queste cose). Ma il vero problema, quello da cui dipendono infine i giudizi sul personaggio, è la gestione dell’impero ateniese. A metà del quinto secolo, Atene aveva trasformato una alleanza difensiva antipersiana in uno strumento di dominio. Con le poleis entrate nella sua orbita, la città non esportava certo la democrazia, anzi si comportava da tiranna, reprimendo per inevitabile logica di potere ogni tentativo degli alleati-sudditi di sottrarsi al giogo. Il ruolo di Pericle in questa gestione è controverso: una parte della tradizione gli addebita alcuni interventi molto duri, mentre vari moderni hanno cercato di alleggerire le sue responsabilità. Orbene, è possibile non sia esistita una «specificità periclea nella gestione dell’impero»: ma leggendo Tucidide si comprende che Pericle fu consapevole del fatto che l’impero aveva una logica che non ammetteva tenerezze. Fissare questo punto non vuol dire fare di Pericle un crudele massacratore di innocenti, bensì cercare di capire come funzionò la fase culminante di quell’esperimento politico e sociale che chiamiamo «Atene di Pericle».
Un’abile gestione
Perché una gestione però vi fu, e fu abile. Gli ateniesi profittarono per qualche anno, a spese anche degli alleati, di un’abbondanza unica di risorse (i poeti comici creavano scenette su Atene come «paese di cuccagna» dove si poteva trovare di tutto). I cittadini, «azionisti della polis» secondo una felice immagine, beneficiavano della redistribuzione dei guadagni comuni: delle risorse della polis, del tributo degli alleati e dei bottini di guerra. Con questi fondi Atene celebrava anche le feste religiose, e si dotò di quei monumenti celebri che costituiscono ancora oggi il simbolo del «miracolo» ateniese. Monumenti che, osservava acidamente Tucidide, avrebbero un giorno fatto pensare che la città fosse più potente della realtà. La spettacolarità di questi esiti non fa passare in ombra altri aspetti del «governo» di Pericle: il controllo che seppe esercitare sull’opposizione, la costruzione spregiudicata di una figura carismatica, la sapiente alternanza di tradizione e modernità «illuminista» nei rapporti con gli intellettuali come Anassagora.
Pericle non colse successi rilevanti dal punto di vista militare: nella guerra contro Sparta scoppiata dopo lunghe tensioni nel 431 a.C. egli impose una strategia attendista che, seppure in fondo giusta, suscitò grande malcontento in Atene. Di quella guerra egli visse solo l’inizio, perché soccombette all’epidemia che flagellò la città nel 430/29: ma restò forte il senso della direzione da lui tracciata. Secondo Tucidide, i leader ateniesi venuti dopo non seppero ritrovare la stessa capacità di tenere a bada le opposte spinte radicali del popolo, padrone spesso irrazionale dell’assemblea, e dell’aristocrazia, emarginata dalla sempre più marcata radicalizzazione del governo democratico. Questa impostazione, divenuta una vulgata, oggi è messa in forte discussione: anche Azoulay ritiene che una discontinuità non sia riscontrabile. La cura con cui Tucidide specifica che Pericle «guidava il demo più di quanto ne fosse guidato» ha accentuato troppo l’opposizione tra lo statista e i suoi successori, accusati (loro sì) di essere dei demagoghi. La differenza fu forse più di provenienza sociale e stile che di pratiche: Pericle fu tra quegli aristocratici che si sporcarono le mani con il governo democratico, per contenerne le derive: suoi successori, di altro ceto, perseguirono invece con più evidenza l’oppressione dell’élite ateniese, emarginandola ulteriormente dalla gestione del potere e drenando risorse a favore del demo. In questo gli oligarchi ateniesi e Platone avevano visto giusto.
C’è persino Hitler
Il bel percorso che Azoulay propone sulla fortuna (o sfortuna) moderna di Pericle giunge fino al Novecento. C’è perfino Hitler, giacché qualcuno indagò il carisma di Pericle come quello di un Führer, e qualcun altro paragonò le opere costruite dall’uno con Fidia a quelle progettate dall’altro con Speer. Manca invece Mussolini, che pure un interesse per lo statista ateniese pare l’avesse. Il materiale più ampio è naturalmente derivato dagli storici e letterati maggiori di Francia. Il Settecento italiano però fornisce un esempio che avrebbe meritato menzione: la un tempo celebre Prosopopea di Pericle di Vincenzo Monti, ode del 1779 che celebra i fasti della Roma di Pio VI Braschi. Monti immagina che un’erma-ritratto di Pericle, tra le sculture ritrovate a Tivoli in quel tempo e accolte nel Museo Pio-Clementino, celebri la superiorità della Roma del tempo rispetto alla grandezza passata di Atene: «Tardi nepoti e secoli / Che dopo Pio verrete / Quando lo sguardo attonito / Indietro volgerete / Oh come fia che ignobile / Allor vi sembri e mesta / La bella età di Pericle / Al paragon di questa!». Alla luce del mito che ha fatto di Pericle l’eroe della democrazia, l’accostamento con un papa che fu netto nemico della Rivoluzione e morì da deportato in Francia, suona certo assai bizzarro. Poi certo vien da chiedersi che cosa direbbe l’erma di Pericle, parlando della Roma di oggi, non più pia, ma francescana e soprattutto virginea..