Se, come afferma Adolfo Pérez Esquivel, i giovani non sono il futuro ma rappresentano già il presente, è a loro in particolare che spetta fin da subito il compito di strappare l’umanità al destino dei dinosauri. Ed è per questo che il Premio Nobel per la pace argentino, insieme al leader buddista giapponese Daisaku Ikeda (rappresentato da suo figlio Hiromasa), ha lanciato da Roma in un incontro, il 6 giugno all’Ex Dogana, un appello alla resilienza e alla speranza rivolto ai giovani di tutto il pianeta (può essere letto e firmato alla pagina facebook.com/ikedaesquivel).

Dell’appello – a cui hanno già aderito numerose realtà laiche e religiose (cattoliche, anglicane, avventiste, valdesi, ebraiche e islamiche), oltre alla Fao e al Comune di Assisi – abbiamo parlato con Pérez Esquivel durante il suo soggiorno nella capitale.

Come è nata l’idea di questo appello?

Collaboravo già da tempo con Daisaku Ikeda, presidente dell’istituto Soka Gakkai, con cui ho scritto anche il libro «La forza della speranza. Riflessioni sulla pace e i diritti umani nel terzo millennio». Di fronte alle enormi sfide che l’umanità si trova ad affrontare in questa vertiginosa epoca di cambiamenti, abbiamo pensato di rivolgerci ai giovani affinché diventino costruttori della loro vita e della storia del nuovo millennio. I giovani non sono il futuro ma sono il presente: è quello che oggi seminano che domani raccoglieranno. E siamo convinti che sapranno trovare una risposta ai grandi problemi planetari, a cominciare dalla follia delle armi nucleari, dalla fame e dal cambiamento climatico.

La fame è un crimine: per superarla basterebbe che le grandi potenze destinassero alla vita le risorse della morte, che perseguissero la strada della sovranità alimentare anziché quella della tirannia del mercato. Giorni fa, alla Fao, ho ricordato come Lula durante il suo governo abbia fatto uscire dalla povertà estrema 36 milioni di abitanti. Per questo è oggi un prigioniero politico. I paesi di America Latina e Africa non sono poveri, sono paesi ricchi che sono stati impoveriti. Non dovremmo chiederci perché ci sono i poveri, ma perché ci sono i ricchi.

Il Nobel per la Pace argentino, Alfonso Pérez Esquivel

 

È un appello pieno di speranza. Ma, in assenza di tagli drastici alle emissioni di gas serra, il rischio è che l’aumento della temperatura globale raggiunga i 4 gradi prima della fine del secolo. Su cosa si basa questa speranza?

La speranza dipende dalla capacità dei popoli di unirsi contro la sempre crescente concentrazione di potere e dalla volontà dei giovani di ribellarsi e dare vita a una resistenza sociale, culturale, politica, spirituale, economica, ecologica. Il cambiamento climatico esige dalle grandi potenze un ripensamento dello sviluppo, affinché sia liberato dallo sfruttamento e basato sull’equilibrio dell’essere umano con la Madre Terra. È all’assenza di questo equilibrio che vanno ricondotte violenza sociale e culturale, devastazione degli ecosistemi, deforestazione, contaminazione delle acque. Eppure possiamo vivere senza computer, senza auto, senza dollari o euro ma non senza acqua.

Nel 2014 l’America latina si è autoproclamata «zona di pace». Quanto è in pericolo tale conquista di fronte all’ingresso della Colombia nella Nato, la minaccia di invasione militare in Venezuela, la crescita di militarismo e violenza in diverse aree del continente?

Tutto è sempre in pericolo. Oggi il pericolo è rappresentato dal presidente Santos, Premio Nobel per la Pace, che ha portato la Colombia nella Nato, dalla sottomissione dei popoli al Fondo Monetario Internazionale come sta avvenendo in Argentina, dalla crisi del Venezuela, dai colpi di Stato in Honduras, in Paraguay, in Brasile. E dietro tutto questo ci sono gli Stati uniti. Si assiste a un’involuzione generale in America latina, a una perdita della sua sovranità.

Perché questa involuzione?

Perché la destra neoliberista è tornata a vincere, distruggendo come uno tsunami tutto quello che era stato costruito. E lo ha fatto anche grazie agli errori dei governi progressisti. Più in generale, i governi di qualsiasi segno portano avanti politiche meramente congiunturali, guardano solo alle scadenze elettorali, cercano facili consensi, trascurando la necessità di progettare a medio e lungo termine. Neppure va ignorato il fattore della propaganda. Quella che in Brasile passa per la Rede Globo e in Argentina per il Clarín e La Nación. È l’imposizione del pensiero unico. È il totalitarismo. Per questo chiediamo ai giovani di pensare con la loro testa e intendiamo diffondere l’appello nei diversi paesi, le università, le scuole, le realtà di base. E lo tradurremo in più lingue possibili, compreso arabo e cinese.

Qual è la sfida che oggi attende la sinistra?

La sinistra deve imparare nuovamente a sommare e moltiplicare. Senza la capacità creativa di unire le forze non si va da nessuna parte. Bisogna partire da quello che ci unisce, che ci identifica, che genera una coscienza collettiva. Solo dopo si andranno ad affrontare le differenze. Dobbiamo puntare sui progetti educativi, sulla partecipazione dei giovani. Perché, da educatore, io continuo a confidare nella capacità dei giovani di ribellarsi, di sfuggire alla disperazione e all’uniformità del pensiero unico. La grande ricchezza dei popoli è la diversità, non l’uniformità.

Dopo aver eletto Macri presidente e avergli ridato fiducia alle elezioni di medio termine di ottobre, il popolo argentino inizia a cambiare idea?

Assolutamente. Basti pensare che stanno fallendo tante piccole e medie imprese, strangolate in particolare dall’aumento del 1000% delle bollette energetiche. Chiudono ospedali e scuole. Questo non è un governo democratico, ma un regime di eccezione. Non a caso Macri ha annunciato un decreto che assegna alle forze armate un ruolo più attivo in ambito di sicurezza. Ufficialmente per il controllo delle frontiere e la lotta al narcotraffico, in realtà a scopi repressivi, come avviene nelle favelas brasiliane.