Se si ha l’intenzione di affrontare la lettura del romanzo di Teju Cole, Città aperta (Einaudi 2013, traduzione di Gioia Guerzoni, pp. 228, euro 17,50), spinti dai fastidiosi, improbabili paragoni, con i quali gli addetti al marketing editoriale propongono il volume (trattando da sprovveduti i potenziali lettori), il suggerimento sarebbe quello di riporre senza tentennamenti il libro sullo scaffale. Il testo di lancio recita più o meno così: «Una potente e inquietante indagine dell’animo umano. Cole ha guadagnato paragoni lusinghieri con pesi massimi letterari come J. M. Coetzee, W. G. Sebald e Henry James, ma Città aperta merita maggiore lode: si tratta di un lavoro profondamente originale, intellettualmente stimolante, in possesso di uno stile accattivante e seducente». Come dire il massimo delle aspettative letterarie annunciate con il gergo di un venditore di almanacchi.

Liberi da questo genere di riferimenti e senza eccessive attese, Città Aperta offre il suo aspetto migliore attraverso una lettura lenta e la capacità di penetrare, condividendolo, il particolare sguardo sulle cose che l’autore rivela pagina dopo pagina. Nato da madre tedesca e padre nigeriano, trapiantato adolescente negli Stati Uniti, lontano da affetti e radici, Julius, il protagonista del romanzo, possiede quella sorta di sguardo distaccato che può scaturire da un eccesso di saggezza oppure dal sentimento di non appartenere a nessun luogo, che è tutto sommato anch’esso una forma di saggezza, forse più dolorosa e non cercata. Nell’autunno del 2006, con il distacco derivante dalla condizione appena descritta, inizia il suo viaggio nella metropoli più famosa del mondo.

Julius si muove nelle geografie newyorchesi senza il piglio dei grandi narratori di viaggio ma con uno sguardo pacato, quasi silenzioso, nel quale la descrizione di ciò che vede assume con approssimazioni e approfondimenti successivi il senso più profondo. Incontra le alterità culturali, nota il diverso stile di vita dei neri, dei bianchi, dei numerosi altri popoli che compongono la metropoli, ma non ha voglia di riferirsi ad alcuna istanza di appartenenza, non è dell’umore per sopportare gente che pretende qualcosa da lui, fosse anche una semplice constatazione o tantomeno un giudizio.

Tuttavia incontra le numerose fenomenologie del sopruso, i tentativi di discriminazione, ma li elude sistematicamente, proseguendo il suo viaggio come un osservatore non partecipante, come un antropologo urbano che va scavando nelle pieghe della città. Registra i segmenti dell’universo metropolitano restando impermeabile ad essi. Della sua vita il lettore conosce poco, rimane un mistero perfino un suo viaggio a Bruxelles, dove aveva già vissuto.

Il romanzo presenta aspetti sorprendenti ma lascia una delusione di fondo generata da una certa, forse deliberata reticenza a prendere posizione. Di Julius si sa che è uno studente di psichiatria ma proprio per questo appare stranamente distaccato dal suo passato, sottraendosi dal narrare aspetti cruciali della sua giovinezza in Nigeria. Preferisce ascoltare le numerose storie di vita che gli raccontano le persone che incontra, prevalentemente di notte. Alcuni personaggi sono descritti con profondità di sguardo, notevole è il ritratto di un ex professore che soffre di cancro e quello di un anziano dottore belga che incontra in un volo diretto in Europa. Altri incontri con sconosciuti sono caratterizzati da un tono surreale, quasi sognante, come se rappresentassero delle proiezioni di quel senso di spaesamento che è evidente in molti passaggi del libro.

La New York di Cole viene descritta senza grandi proclami né rilevanti osservazioni. Scrittore, fotografo, storico, cresciuto in Nigeria e arrivato negli Stati Uniti nel 1992, riferisce con apparente casualità di una città abitata da immigrati provenienti da ogni latitudine: nigeriani, keniani, libanesi, haitiani, cinesi e altri ancora, tutti venuti per sfuggire alla morsa della propria storia e per inseguire la loro versione del sogno americano. Un sogno verso il quale Cole non mostra particolari entusiasmi. Così come appare dal tono di questo brano: «E così quando lo scorso autunno avevo cominciato a fare le mie passeggiate serali, mi ero reso conto che Morningside Heights è un buon punto di partenza per esplorare la città. La stradina che scende dalla cattedrale di Saint John the Divine e attraversa Morningside Park è a un quarto d’ora da Central Park. Nella direzione opposta, andando verso ovest, Sakura Park è a dieci minuti, mentre a nord si arriva ad Harlem costeggiando l’Hudson, anche se il traffico al di là degli alberi copre il rumore del fiume. Quelle camminate, un contrappunto alla frenesia delle giornate in ospedale, pian piano si erano allungate, portandomi sempre più lontano, tanto che a volte, di notte, dovevo tornare a casa in metropolitana. È così che, all’inizio dell’ultimo anno di specializzazione in psichiatria, New York si era fatta strada nella mia vita passo dopo passo». Così quasi per caso.