Il titolo originale del film Caméra d’or allo scorso festival di Cannes, La tierra y la sombra, La terra e l’ombra, restituisce con forse maggiore precisione il paesaggio fisico, umano, emozionale che ne è il protagonista. Una terra grigia, resa buia dalla polvere che ne allucina i colori e i contorni divorando i polmoni degli uomini e le foglie delle piante. Quasi un inferno dove per sopravvivere si gioca con la morte.
Siamo in Colombia, nella Valle del Cauca, regione da cui proviene il regista, e non è questo il solo legame intimo tra la storia del suo film esordio e la sua vita. Racconta infatti che all’origine c’è la perdita dei genitori, la sua fatica a ricordarli, e a elaborare questo lutto, e il desiderio di farli rivivere attraverso la magia del cinema. Poi però l’obiettivo si è spostato su un’altra famiglia narrativa, un ragazzo, la moglie, il loro figlioletto e la madre del ragazzo, quest’ultima ha resistito fermamente all’invasione della canna da zucchero, piantagioni sterminate che hanno cancellato le fattorie, il bestiame e costretto la gente a andarsene. Tutti meno che loro.

L’ ostinazione però è costata la salute dell’amato figlio, che ora giace al buio e chiuso in casa col petto squarciato dalle polveri delle canne da zucchero e dalle ceneri che si spandono notte e giorno oscurando il cielo: la terra e l’ombra, un’apocalisse in cui i cinque si muovono come fantasmi.
La malattia del giovane riporta a casa il padre che era andato via diciassette anni prima, tra lui e la moglie i rapporti sembrano ormai impossibili, eppure qualcosa li unisce ancora, un sentimento, ricordi comuni, i gesti che si riconoscono. L’uomo insegna al bimbo, il nipotino a far volare l’aquilone e a chiamare gli uccelli come aveva fatto col figlio. Sotto al grande albero, uno dei pochi rimasti, i tre uomini, tre generazioni diverse aspettano che il merlo scenda beccare gli spicchi di mandarino.

C’è un’emozione forte nel film di Acevedo (in sala, da sostenere e da vedere) che affiora nel racconto composto dal regista per immagini, con un formalismo superbo (a volte persino in eccesso) che non cancella gli interrogativi della realtà in cui si immerge. E al contrario vi aggiunge urgenza mescolando con una consapevolezza di messinscena alto e basso, suggestioni da telenovela – il ritorno del padre dopo anni nella fattoria, le liti famigliari – e una tradizione neorealista che fa pensare a capolavori del cinema latino americano degli anni sessanta o settanta.

Questo equilibrio tenuto per l’intera narrazione fa sì che i personaggi – interpretati da attori non professionisti perché come dice il regista «era una storia di gente di campagna e ci doveva essere una verità nei loro corpi, volevo che si sentisse la durezza del lavoro sulla loro pelle» – prendano vita a poco a poco, senza forzature o psicologismi, nel legame (conflitto) con questa terra e con la sua morte lenta, in una lotta silenziosa contro la cancellazione. E la loro presenza ci dice molto su cosa significano le colture intensive che stanno devastando l’America latina complici i governi che traggono profitto dalle multinazionali le quali a loro volta hanno a disposizione mano d’opera a costo basso – se non zero, visto che i tagliatori come le due donne nel film spesso non vengono pagati e però esitano a ribellarsi nel timore ormai globale di perdere quel poco di lavoro col suo misero guadagno. E su quali conseguenze provoca la sparizione di natura, animali, alberi inghiottiti nelle canne da zucchero che corrono oltre l’orizzonte.
Tutto questo è però si intreccia al quotidiano della famiglia, a quel «rito» commuovente di resistenza che attende di essere spezzato per sempre. Un mondo fragile il loro, come la casa in cui abitano che sembra un fortino, l’unica rimasta nel nulla, il solo segno di una lotta solitaria destinata a perdersi per sempre nel grigio.