C’è qualcosa nelle città che sopravvive ai decenni, ed è quel senso di vertigine che al solo attraversarle promette a tutti i costi di stravolgere o anche solo aggiustare un destino. Nella narrativa occidentale le città sono spazi integrativi per definizione, luoghi d’approdo in cui ragazzi ancora acerbi o personaggi nati agli angoli del globo vanno a diventare interi, qualsiasi cosa questo voglia dire. Che si tratti di storie fantastiche o di percorsi personali, le città sono spesso raccontate come gli scenari perfetti per emanciparsi da un passato toccato in sorte, sono tropi di ricomposizione. Tutto vero, finché accade alla luce del sole. Quando arriva la notte la storia s’inverte, e le strade conducono a universi paralleli che rispondono a geometrie diverse. «Ogni grande città è una Lourdes dove speri di gettare via le stampelle ma intanto devi arrancarci dentro, zoppicando sotto la protezione del reliquario» scrive Elizabeth Hardwick in quel diario dei ricordi che è Notti insonni (Blackie, traduzione di Claudia Durastanti) molto più che un trapassato resoconto della sua New York anni quaranta – «amore e alcol e tutti i vestiti sul pavimento» dell’Hotel Schuyler, dove abita a Manhattan con l’amico omosessuale.

IL SUO AVER IMPARATO a vivere «come in una casa che era stata svaligiata di recente, i cavi tagliati, il proprio mondo vandalizzato, la memoria ridotta al lamento di perdite specifiche», si rivela presto la de-formazione sentimentale di una giovane arrivata dal Kentucky che a New York si farà conoscere come critica e intellettuale. Affrancarsi dalla provincia per amore o per forza deve passare «nella giungla che si oscurava nel mezzo delle cose, a pochi passi da tutti quei posti in cui non andavamo», così come per la «gente vera» che non somiglia «a tua madre e a tuo padre», «ai vecchi amici di un tempo che ora vivevano da soli nelle case di famiglia, con l’argenteria e le foto» preparandosi a morire. Hardwich lo fa con la lama affilata di un coltello, la precisione di un incantesimo, la sua prosa ha il suono dell’abbandono a una lenta e irresistibile dissoluzione, al tornare decadente delle notti illuminate dalle luci artificiali – dove «la gente coi debiti va nei ristoranti, salta sui taxi, sbandando da West a East tramite il sottopassaggio di Central Park». Che differenza fa stare qui da sola? Si chiede a un certo punto. «Persino adesso, poco dopo le otto di sera, i camion iniziano a consegnare le copie del Times domenicale».

«La notte, mi apro. Mi svelo; mi spoglio. Possono rotolarmi sopra. Tutti, o quasi, hanno almeno una possibilità» scrive Clémentine Haenel all’inizio del suo primo romanzo, Vuoto d’aria (Alter Ego, pp. 144, euro 15, traduzione di Valentina Maini), un’immersione nella Parigi dei nostri giorni che si esaurisce in cento pagine con l’eleganza di una scintilla. «Da Parigi non voglio altro che questo treno che prenderò tra poco, la velocità sotto il fondo della Manica, l’immagine della stazione, e questo primo bicchiere di vino bianco. Niente di più di questa eccitazione». Camminare di notte è l’unico modo che resta per formulare un pensiero a una donna ossessionata da killer seriali che procede dritta verso casa sempre «insoddisfatta ma non integra». Vent’anni e una relazione complicata, la pretesa implicita di incarnare la versione aggiornata di Marguerite Duras e l’andatura spregiudicata delle ragazze di Despentes. Da Parigi si parte e si torna all’improvviso in queste pagine ma tutte le città assomigliano a Parigi se Parigi è un paesaggio della mente – pensieri omicidi e sesso occasionale «e poi non resta che l’orribile solfa del mattino che sorge».

È IL CONCETTO STESSO di tempo a dilatarsi, prima di svanire all’orizzonte, in un presente indefinito. D’altra parte le città sono posti in cui si arriva a volte con l’idea di restare senza sapere per quanto, in cui a un certo punto ci si convince persino di restare – «potevo fare promesse a me stessa e ad altri e ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo per mantenerle. Potevo stare alzata tutta la notte e fare errori, e niente avrebbe avuto importanza» avrebbe scritto Joan Didion nel 1967 a proposito della New York che tre anni prima aveva deciso di lasciare in Bei tempi addio, uno dei suoi saggi più difficili da dimenticare. Perché sì, le città sono posti che a un certo punto si lasciano. O meglio che piuttosto ci lasciano andare; ma a cui segretamente continueremo a tornare. Come fantasmi in una vita precedente, come bagliori di una pioggia di notte. E non c’è sogno che regga, di fronte a tutto quello che nonostante le intenzioni non siamo potuti diventare: che fine fa la libertà se la città diventa il ventre immateriale in cui s’impara a desiderare la vita degli altri? – «questi altri lontani, che si amano con dolcezza e hanno un bambino, che ridono senza ostentazione» scrive Haenel. Come ci si emancipa dall’illusione di essere anche soltanto esistiti dall’altra parte del vetro? – «mentre camminavo spedita verso un autobus e guardavo le finestre illuminate delle grandi case di arenaria e vedevo cuoche che lavoravano in cucine pulite e immaginavo donne che accendevano candele al piano di sopra i bei bambini che facevano il bagno a quello ancora più su – salvo che in sere così, non mi sentivo mai povera» scriveva Didion.

OGNI PRETESA di interezza passa per la perdita di sé, lo sa bene Ayami, protagonista del romanzo Notti invisibili, giorni sconosciuti – il primo della scrittrice Bae Suah ad essere pubblicato in Italia (Add, traduzione di Andrea De Benedittis) – un’ex-attrice finita in rovina che adesso lavora come tuttofare nel teatro sonoro per ipovedenti di una misteriosa «fondazione», fino al giorno in cui il teatro chiude, e Ayami si trova a vagare con il suo direttore per gli interni trasparenti di una città assediata da un caldo torrido e tropicale. Siamo a Seul, capitale della Corea del Sud, e nel corso di una notte e di un giorno la città assumerà le forme di un infinito labirinto di specchi capace di infrangere continuamente la presunta identità della ragazza insieme alla costellazione di personaggi che con il carisma di una sonnambula si porta dietro. Come nei sogni, il meccanismo di individuazione deraglia di continuo sovrapponendo le presenze che si scambiano in una perenne, reciproca trasfigurazione, diventano spettri iperreali di qualcosa che in un altro spazio tempo sarebbe stato vero. «Di notte le fibre viscose che assicuravano la tenuta dei tessuti del corpo si allentavano, ondeggiando e poi roteando intorno ai margini della coscienza, le cellule del sonno perdevano la loro identità come se le loro password fossero state di colpo decriptate»; una riga dopo l’altra, con la sapienza di una sacerdotessa e l’inchiostro indelebile di una scrittrice vera, Bae Suah ci trascina in un ipnotico intrico di deja-vu e inattendibili coincidenze, dove Ayami ha trent’anni e ne ha sessanta, è stata già trovata senza vita nel soppalco di un attico eppure è viva, è una civetta cieca oppure non è mai esistita.

LE GONNE SI GONFIANO come vecchi strofinacci in questa storia, svelando piedi «pateticamente piccoli» e scarpe che brillano «quasi fossero nuove» ma che stranamente appaiono «di qualità scadente». Ci sono pappagalli enormi da abbracciare in vasche colme d’acqua fredda, ristoranti senza luce dove le mani si sfiorano cercando i cucchiai a tentoni, case abbandonate senza preavviso in cui si entra con il vecchio trucco della chiave sotto lo zerbino. Bianchi autobus dalle luci accese negli abitacoli che corrono a grande velocità, lasciando intravedere al loro interno vecchie signore intente a leggere un libro, monaci buddhisti che dormono ad occhi chiusi. E poeti che non hanno mai scritto poesie, traduttrici scomparse nel nulla e misteriosi scrittori di gialli che hanno già immaginato in che modo questa traversata andrà a finire, in una città dove le persone si infilano come antiche matriosche l’una nell’altra e «ogni cosa compare troppo velocemente e con la stessa velocità sparisce».

ALLO STESSO MODO sembra funzionare la memoria. «Se ci perdiamo non ci troveremo più» dice Ayami mentre implora il suo accompagnatore di afferrarle il braccio: «mi potrebbe capitare di uscire e, dopo una decina di passi, voltandomi indietro, di non vedere più la mia casa che era sempre stata lì». È il fascino della città moderna in corso di disfacimento. Nel saggio Scene di Londra Virginia Woolf lo rintracciava «nel fatto di non essere costruita per durare, ma per scomparire». È il 1931 quando lo affida alle stampe, ma la sua voce sembra parlarci dal futuro. «Noi non costruiamo per i nostri discendenti» dice «demoliamo e ricostruiamo così come ci aspettiamo di essere anche noi demoliti e ricostruiti». È in questo cerchio magico che «la mente diventa una lastra gelatinosa che registra le impressioni» e Oxford Street può srotolarvi sopra «un nastro infinito di vedute mutevoli, di suoni e movimento». Non importa quanto sia determinata ogni presenza ad affermare il suo tragitto nella moltitudine, «per quanto lo si osservi, il puzzle non si ricompone mai».