Le Case rifugio per le donne maltrattate attive nel 2018 in Italia sono state 272, pari a 0,04 case per 10mila abitanti, in aumento rispetto alle 232 del 2017 ma insufficienti rispetto a quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul (un posto letto ogni 10 mila abitanti). I dati sono contenuti nell’indagine Istat sulle Case rifugio riferita alle attività svolte nel 2018.

In media i posti letto messi a disposizione sono stati 8,9 a struttura mentre quelli autorizzati sono stati 7,4. La differenza è stata particolarmente marcata in Valle d’Aosta, Bolzano, Marche e Campania. Il 36% delle Case rifugio era nel Nord-est; il 32,4% nel Nord-ovest, con la Lombardia che da sola ne conta 57. Il 17,1% al Centro Italia con la Toscana a 21 contro le 6 del Lazio. Al Sud la quota più bassa con il 14,5%. Quasi tutte hanno un indirizzo segreto, circa la metà una linea diretta con le forze di polizia.

Nel 2018 hanno ospitato in totale 1.940 donne (il 62,1% straniere). I canali attraverso i quali si sono avvicinate alle Case rifugio sono stati soprattutto i servizi sociali e i Centri antiviolenza. Solo lo 0,3% è passata attraverso il servizio 1522. La permanenza ha oscillato da periodi brevissimi a due anni, con una media di 259 giorni.

L’accoglienza è inserita in un percorso personalizzato. A disposizione ci sono i servizi di orientamento (96,4%), il piano di sicurezza individuale (93,7%), il supporto psicologico (90,1%), l’indirizzo all’autonomia abitativa (90,1%) e lavorativa (87,8%), il supporto legale (89,2%), il sostegno alla genitorialità (80,6%). Gli ultimi punti particolarmente critici per riuscire a liberarsi dalla dipendenza economica che spesso si accompagna alla violenza.

Con la pandemia però lo scenario è diventato più complesso a fronte di una crescita della violenza familiare. Due realtà raccontano il dramma. Sono state 1.076 le donne che, nel primo semestre del 2020, si sono rivolte alla rete antiviolenza del comune di Milano (in 760 per la prima volta). Si tratta di una riduzione del 24% rispetto alle richieste dei mesi di marzo e aprile 2019. Dato che registra la maggiore difficoltà durante il lockdown a chiedere aiuto per chi è stata costrette in casa con i maltrattanti.

Il Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia Romagna spiega: «I dati raccolti nei primi 10 mesi del 2020 mostrano che la pandemia ha avuto un effetto negativo sull’accesso ai percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Per la prima volta c’è stata una diminuzione delle donne accolte di circa l’8% rispetto al 2019. Il picco negativo si è verificato a marzo (meno 51%) ma già da aprile le richieste di aiuto sono riprese. Nei mesi di luglio e agosto le donne che si sono rivolte a un Centro antiviolenza nella regione sono risultate più numerose che nell’anno precedente (più 4% a luglio, più 22% ad agosto). Le nuove richieste risultano del tutto simili a settembre (257 nel 2020 contro le 254 del 2019) per diminuire a ottobre (meno 20%)».

Tornando al 2018, quasi tutte le strutture hanno offerto ospitalità di medio-lungo periodo (86,5%) e ospitalità programmata in urgenza (67,1%). Meno frequente l’ospitalità in emergenza. Solo il 47% degli enti gestori si occupa esclusivamente di violenza di genere. Le operatrici che hanno lavorato nelle Case sono state 1.997; 705 esclusivamente in forma volontaria. Nel Sud e nelle Isole la quota di volontarie è stata molto inferiore alla media nazionale (rispettivamente 20,9% e 26,4%).

Secondo quanto stabilito dall’Intesa Stato – Regioni del 2014, le Case si dovrebbero avvalere solo di personale femminile, tuttavia esiste un 12,2% di strutture che ha personale maschile. Nel Mezzogiorno il 31,8% delle Case non ha aderito a una rete territoriale perché non c’è nell’area di competenza.