Ricominciare. Racchiuso in una parola, è questo il destino della sinistra oggi. Non di una fase di ordinario assestamento, ma di un’epoca storica. Un ricominciare dalle radici: della visione critica del mondo; di culture capaci di assumere e interpretare i cambiamenti; di politiche in grado di aprire prospettive reali per la vita delle persone; di insediamenti sociali che mettono in moto partecipazione e comunità. E di classi dirigenti nuove, giovani, fresche, sorrette nella sfida da un cumulo di esperienze e di storie, individuali e collettive, che non va disperso, ma che deve saper compiere un passo di lato.

Ancora niente di tutto questo s’intravvede all’orizzonte, a quasi un anno ormai dal voto, e dinanzi alla nuova avventura cui è esposto il paese, tanto sul piano di un arretramento sociale come su quello di una convivenza democratica che sempre più s’incrina. Un impeto d’orgoglio ci farebbe dire: l’avevamo detto, era prevedibile. Era prevedibile che compagini assemblate con l’assillo delle liste da fare, più che con un progetto politico da radicare, si sarebbero scomposte subito dopo il voto. In frammenti ancor più numerosi di quelli che hanno dato vita ad un cartello elettorale, e nient’altro.

E prevedibile, occorre aggiungere, la parabola cui andava incontro un partito nato per allargare il campo sociale e politico della sinistra, per mescolare culture e differenze; e finito invece ben presto con l’uomo solo al comando, la contrapposizione di cordate interne, impermeabile ai ripetuti segnali di distacco di pezzi di elettorato, di intelligenze che dall’esterno guardavano ad esso. Meno prevedibile, bisogna ammettere, è questo immobilismo, la ritualità che segna la fase del dopo voto, proprio nel mentre s’insedia e si espande nel paese e nelle istituzioni, un connubio politico tanto inedito quanto rischioso per l’Italia e, ormai si vede chiaro, per la stessa Europa.

E’ un immobilismo che parla non soltanto dell’inadeguatezza politica, ma della responsabilità morale delle attuali classi dirigenti; prima di tutto verso quella parte di società italiana, niente affatto trascurabile, che non intende consegnarsi alla deriva populista, e potrebbe persino coltivare un bisogno di sinistra, se da qualche parte la trovasse. Per questo il ricominciare è dalle radici. Senza paura di pesare le parole: fallimento, è quella giusta. Non di qualche risultato ottenuto, se si guarda indietro all’esperienza nei territori e persino, qua e là, in qualche atto di governo. Ma di un progetto, di un’alternativa, autonoma e strategica che indichi il cammino. Qui è il vuoto da colmare. Prendere atto d’aver toccato il fondo è il primo passo verso il nostro ricominciare.

Questo può fare, più di altri oggi nel PD, Nicola Zingaretti. Ha il profilo adatto per imprimere discontinuità e attrezzare il cantiere della sinistra, rimettendola in campo. L’ha dimostrato nelle stagioni del governo amministrativo di cui è stato ed è protagonista. Lo stile è l’uomo, e se non gli manca la credibilità, gli occorre ora la dose di coraggio necessaria a una sfida inedita, non certo all’ordinaria amministrazione. “Piazza Grande”, il percorso al quale ha dato vita, evoca già nel nome l’intento di far uscire il PD dal circolo vizioso interno in cui ristagna, avviando una discussione su come ricostruire una forza politica di sinistra, democratica e progressista.

Una discussione che ci riguarda, senza pregiudizi né precipitazioni organizzative. Un partito è pur sempre un partito, e se pensiamo alla sinistra, con il carico di una storia, di una tradizione, e insieme di una scommessa aperta sul futuro, quel partito non può altro che essere inclusivo, plurale, costellato di una classe dirigente, maschile e femminile, giovane, alternativa. Se questa è la posta in gioco, come possiamo restare a guardare?